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Letture e Commento della 32esima Domenica del tempo ordinario – C
a2, La Liturgia

Letture e Commento della 32esima Domenica del tempo ordinario – C

domenica

LETTURE: 2 Mac 7, 1-2. 9-14; dal Salmo 16; 2 Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38

Dal secondo libro dei Maccabèi7, 1-2. 9-14

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».

[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».

Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.

Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».

Salmo 16: Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.

Ascolta, Signore, la mia giusta causa,
sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c’è inganno. (Rit.)

Tieni saldi i miei passi sulle tue vie
e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio;
tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole. (Rit.)

Custodiscimi come pupilla degli occhi,
all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua immagine. (Rit.)

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 16, 3-5

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

Alleluia, alleluia.
Gesù Cristo è il primogenito dei morti:
a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.
Alleluia.

 

Dal Vangelo secondo Luca 20, 27-38 Forma breve Lc 20, 27.34-38

[ In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione ] – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».

Gesù rispose loro: [ «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». ]

Commento

La prima lettura che l’odierna Liturgia ci offre, è un testo famosissimo del secondo libro dei Maccabei. In esso viene preso in considerazione il periodo che va dal 180 al 160 a.C., cioè dal tempo del sommo sacerdote Onia III fino alla morte di Nicanore, generale di Demetrio I re di Siria. In pratica vengono narrate, sotto un’altra angolatura, solo le gesta di Giuda Maccabeo, già raccontate da 1Mac 1-9. L’autore mette in evidenza i compromessi della classe dirigente giudaica e la costanza dei martiri che si oppongono all’imposizione dei governanti con coraggio e costanza, nella speranza di ottenere un giorno da Dio la resurrezione dei loro corpi.

All’inizio sono narrati alcuni episodi riguardanti i rapporti con la Siria e l’introduzione degli usi greci da parte di Antioco IV Epifane (2Mac 3,1-6,17). Sono poi presentati due episodi di fedeltà alla fede: il primo narra del vecchio Eleazaro, uno scriba novantenne, che accetta di morire soffrendo atroci dolori pur di non mangiare carni suine e, dunque, proibite (2Mac 6,18-31); il secondo è la storia di sette fratelli che hanno preferito morire piuttosto che tradire la loro fede (2Mac 7).

Il brano liturgico odierno riporta una parte di questo capitolo. Esso comincia prospettando il caso di questi giovinetti che sono portati con la mamma davanti al re in persona, il quale vuole costringerli a mangiare carne di maiale, carne proibita dalla Legge di Mosè. A nome di tutti uno di loro dice: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri» (vv. 1-2).

Nel brano successivo (vv. 3-8), omesso dalla liturgia, si racconta che il re comanda subito di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre e poi di accostarlo al fuoco e di arrostirlo. Nel frattempo gli altri si esortavano a vicenda e con la loro madre a morire da forti, piuttosto che trasgredire la Legge.

Viene poi la volta del secondo il quale subisce gli stessi tormenti del primo. Interrogato se è disposto a mangiare la carne suina, dice al re: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (v. 9).

Viene poi portato al re il terzo che, alla sua richiesta, mette fuori la lingua e stende con coraggio le mani dicendo: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo» (vv. 10-11). Lo stesso re e i suoi dignitari rimangono colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture (v. 12). Anche il quarto, straziato con gli stessi tormenti, in punto di morte dice: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita» (v. 14).

Il martirio dei sette fratelli viene presentato come l’unico mezzo che consente di essere fedeli a Dio, rifiutando le lusinghe del re che si dichiara disposto a dare i più grandi privilegi a chi accetta di rinnegare la sua fede anche solo mediante il semplice gesto di mangiare carne proibita. Il fatto che vi siano persone capaci di resistere fino in fondo alle richieste del re è visto come l’unico mezzo per preservare il popolo dalla rovina. Alla fine la violenta persecuzione lascia il posto alla rivincita, che ha luogo non tanto per la prodezza dei combattenti quanto piuttosto per l’eroismo dei martiri.

È precisamente nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, i quali hanno dato la vita per la loro fede, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio in vista del quale i martiri hanno saputo donare la propria vita. Il fatto di riavere le proprie membra è quindi un’espressione simbolica per indicare la nuova vita che comporta l’attuazione di quei valori che i martiri hanno identificato con le leggi del loro popolo.

Passando alla seconda lettura, notiamo subito che, nel brano che abbiamo letto domenica scorsa si introduceva l’argomento riguardante le false avvisaglie riguardanti il ritorno glorioso di Gesù Cristo. Paolo descrive dunque i segni premonitori di questo arrivo e mette in guardia dal mistero dell’iniquità (2 Ts 3-12). Egli però loda i Tessalonicesi poiché sono stati la primizia, cioè tra i primi ad aderire alla fede in Cristo. Paolo li esorta a mantenere ferma questa fede e le tradizioni che hanno ricevuto.

Segue dunque il brano scelto per oggi che ha al centro la preghiera perché il Signore li aiuti a rimanere fedeli alla loro vocazione di cristiani. Paolo rivolge una supplica al Signore Gesù e a Dio Padre chiedendo loro che sostengano il cammino dei cristiani di Tessalonica. Il cammino di fedeltà cristiana è frutto della volontà umana ma anche dell’intervento rafforzante della grazia divina. Il Signore non mancherà di fare la sua parte perché ci ha amati fin dal principio e ricolmati di ogni bene. Rafforzati dal suo aiuto possiamo fare del bene e dire cose buone.

Dopo aver pregato per i cristiani e aver assicurato loro l’aiuto del Signore, Paolo a sua volta si affida alle preghiere dei fratelli. Gli uni pregano per gli altri. È una forma importante di solidarietà e fraternità cristiana. I predicatori del Vangelo chiedono che la Parola di Dio possa essere annunciata in tutta libertà, perché possa essere accolta nel modo giusto. Si può intuire sullo sfondo di queste parole la persecuzione che i predicatori del Vangelo stanno sopportando. Il Vangelo è segno di contraddizione nel mondo e non in tutti suscita la fede, anzi può sollevare ostilità.

Abbandonarsi nel Signore è però possibile. Egli è fedele, perciò persegue coerentemente la sua azione iniziata a favore dei credenti. Gesù agirà sostenendo la loro fede e proteggendoli da ogni influsso negativo. A partire da questa fiducia riposta nel Signore, si può anche guardare con serenità il futuro: i cristiani saranno obbedienti alla parola autorevole di Paolo.

Il brano si conclude con un voto benedicente affinché il Signore diriga gli interlocutori sul sentiero segnato dall’amore di Dio e dall’attesa costante della sua venuta finale (pazienza). Il testo caratterizza l’esistenza cristiana in rapporto all’amore che il Padre ha per noi e al futuro di salvezza promesso in Cristo. Essa è risposta, accoglienza e apertura di fronte al dono e alla promessa.

In questa XXXII° Domenica del tempo ordinario, la Liturgia, omettendo importanti brani che leggiamo in altri momenti dell’anno, ci colloca, con Gesù, al termine del viaggio verso Gerusalemme, all’interno del Tempio, partecipi di una disputa con i Sadducei (Lc.20,27-38). È l’unica volta che si parla dei Sadducei nel Vangelo: composto in prevalenza da ricche famiglie sacerdotali e da nobili laici, il partito dei Sadducei, che si richiamava a Sadoc, i cui discendenti erano gli unici riconosciuti come sacerdoti legittimi: Ez.44,15, costituiva il vertice sacerdotale e politico di Israele. Conservatori in materia religiosa, ammettevano solamente l’autorità del Pentateuco e rifiutavano sia la tradizione orale che le nuove credenze. Poiché i libri di Mosè non parlano di risurrezione, solo dal sec. II a.C. in Israele si è cominciato a parlarne, i Sadducei erano in posizione agnostica: da qui nasce la disputa con Gesù. Con la guerra giudaica (66-70 d.C.) assieme al Tempio, anche i Sadducei sono scomparsi dalla storia d’Israele.

Scrive, dunque Luca nel Vangelo odierno: “Si avvicinarono a lui alcuni Sadducei, che negano che ci sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: Maestro, Mosè ci ha prescritto…”.

Il caso sottoposto a Gesù fa riferimento alla legge del levirato (Deut.25,5-10) secondo la quale il fratello di un uomo che muore senza avere figli, deve sposarne la moglie per assicurargli la discendenza. La situazione presentata è quella di una vedova che non ha figli, sposata successivamente da sette fratelli. La domanda è: “Questa donna, alla risurrezione, di chi sarà moglie, dal momento che in sette l’hanno avuta per moglie?”.

Evidentemente la questione posta in questi termini, ironizza su una concezione materialista della risurrezione, che i Farisei diffondevano, concepita come un ritorno migliorato alla vita terrena.

La risposta di Gesù, certamente sviluppata da Luca, importante anche per noi, per il senso della nostra esistenza, per le domande fondamentali che noi pure continuiamo a porci, è frutto della novità dell’esperienza personale di Gesù e della sua risurrezione e segna un punto di novità in rapporto alla concezione materialista dei Farisei.
Anzitutto, Gesù parla di “figli di questo mondo” e di “quelli che sono ritenuti degni di partecipare all’altro mondo”, affermando con chiarezza che il mondo della risurrezione non è la riproduzione del mondo terrestre: l’altro mondo è un “mondo altro”, inimmaginabile e indicibile. Il matrimonio fa parte di questo mondo: “i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito” perché l’umanità possa sopravvivere, mentre “quelli degni di far parte del mondo altro” non hanno più bisogno di generare figli, perché l’umanità ha raggiunto l’immortalità.

Scrive Luca: “Essi infatti non possono più morire, perché sono simili agli angeli: sono figli di Dio, perché sono figli della risurrezione”.

Avvertiamo qui, tutta la fatica di Luca ad esprimere con parole normali della cultura giudaica e della cultura greca, tutta l’indicibile novità della vita della risurrezione, a cui partecipano coloro che “sono ritenuti degni di farne parte”.

Far parte del mondo altro è puro dono di Dio: dire che coloro che ne fanno parte sono “simili agli angeli” significa che sono ormai dalla parte di Dio, rinati ad una condizione della quale Dio solo conosce il segreto. “Infatti, essi, non possono più morire”: Luca spiega questa affermazione con un commento che deriva dalla sua fede cristiana. Coloro che fanno parte del mondo nuovo, non sono soltanto uguali agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella sua vita, grazie alla risurrezione che è il grande dono di Dio all’uomo. Evidentemente Luca parla dell’immortalità nell’ottica della fede cristiana: il legame tra risurrezione e filiazione divina è applicata a Cristo ed è ormai un dato della fede cristiana: è un dono offerto a tutti gli uomini che sono “in Cristo”.

Parlando di “figli della risurrezione”, Luca previene il fraintendimento possibile in ambiente ellenistico, e anche per noi, che identifica l’immortalità con la spiritualità dell’anima: i “figli della risurrezione” vivono in Dio una vita nuova, che non muore, una vita pienamente umana, non riconducibile all’immortalità dell’anima spirituale.
Gesù, infatti, richiamandosi a Mosè, la cui autorità anche i Sadducei riconoscevano, inizia una riflessione nuova, meravigliosa, che dà fondamento alla sua concezione di immortalità e ne fa comprendere la bellezza e la ricchezza.

Gesù si riporta all’esperienza di Mosè, al suo incontro con Dio, all’esperienza fondante della fede di Israele, che egli porta al vertice. “Che i morti risorgano anche Mosè lo ha svelato con il roveto dicendo il Signore Dio di Abramo, e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe…”: così scrive Luca, in una frase densa, quasi intraducibile. L’incontro imprevisto di Dio, che ha cambiato la vita a Mosè, nel simbolo del roveto che arde e non consuma, contiene tutta l’intensità della relazione di Dio con l’uomo: Dio forza che arde e non consuma, Dio vita infinita che non uccide ma fa vivere la sua creatura, Dio più intimo di quanto non sia l’uomo a se stesso, Dio che non violenta ma libera l’uomo, Dio Amore che si incarna nella fragilità dell’uomo. Dio, l’”Io sono” che risveglia il “tu” dell’uomo: Dio che chiama per nome Mosè perché cominci a conoscere se stesso e a conoscere il mondo. Dio Colui che è con…, Dio dell’alleanza, della relazione personale: Dio di Abramo “e” Dio di Isacco “e” di Giacobbe… “e” di ogni persona umana: al vertice, relazione piena, filiale con Gesù. Dio l’Amore-fedele che discende fino all’oscurità della morte: l’Amore che diventa sempre più grande quanto più discende. Dio-Amore fedele che non può abbandonare l’uomo che ama nel momento dell’estrema debolezza della morte. Dio che esprime la potenza infinita dell’Amore risvegliando l’uomo che muore per una vita nuova che non muore più.

Gesù ha vissuto questa esperienza di relazione filiale con il Padre, sino all’estrema oscurità della Croce riempita dall’Amore silenzioso di Dio, come nuovo roveto che arde e non consuma: Dio è l’Amore che si annienta nella carne per risorgere nella pienezza della vita. Tutto è l’Amore che muore e risorge: tutto vive per l’Amore. “Dio non è dei morti, ma dei vivi: tutti infatti vivono per Lui”: tutti vivono per l’Amore.

Gesù, con la sua esperienza di uomo che muore e che risorge, come Figlio abbandonato all’Amore del Padre, è la luce che illumina il senso dell’esistenza umana, nella sua oscurità fragile ma avvolta dall’Amore di Dio che accoglie e genera ad una vita piena.
Per Gesù, l’immortalità a cui l’uomo è chiamato è il dono dell’Amore fedele di Dio di cui rende partecipe la sua creatura fragile.

L’Amore è il senso di tutto. La risurrezione di Gesù riempie di senso la nostra oscurità e fa nuovo tutto: se la nostra logica è di pensare che l’esistenza parte dalla nascita e va verso la morte, Gesù ci invita a partire dalla morte come nascita all’Amore per interpretare il “già” della nostra esistenza umana. Tutto ha senso se, partendo dall’Amore che ha risuscitato Gesù, a cui tutti siamo chiamati, sappiamo già vivere adesso come figli della risurrezione, come figli dell’Amore: l’Amore non muore e non morirà. In modo nuovo, misterioso nel senso del mistero dell’Amore infinito, vivremo in pienezza, ciò che già cominciamo a gustare: non l’immortalità dell’anima, ma la bellezza di una relazione d’Amore, come uomini e donne, nella quale crediamo già presente il roveto che arde e non si consumerà mai.

Messaggio di questa Domenica

LA VITA DELL’UOMO DOPO LA MORTE

Le letture di questa domenica ci propongono di riflettere su una realtà che spesso trascuriamo. Già la scorsa settimana durante le liturgie nella festa di tutti i Santi e della commemorazione dei defunti ci siamo soffermati sulla realtà della vita dell’uomo dopo la morte. Quella soglia turba l’uomo perché, come dicevamo, ci apre ad una realtà futura misteriosa. Infatti non ne sappiamo molto, e l’unico atteggiamento possibile per noi discepoli di Cristo è di affidarci a lui, senza molte certezze razionali. Sì, solo la fede ci rende capaci di affrontare con una certa serenità la realtà della vita dopo la morte.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato il racconto del martirio di sette giovani ebrei operato con crudele violenza dal re Antioco. La loro storia ci ricorda le vicende di tanti cristiani che hanno resistito fino al sangue per non rinnegare la propria fede. E uno dei motivi che spinge quei giovani a non cedere alla tortura e la morte è proprio quello della fede incrollabile nella resurrezione dopo la morte: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» dice uno dei sette. Anche Gesù nel Vangelo ascoltato ribadisce la realtà della resurrezione, e lo fa in risposta alle obiezioni dei sadducei che negavano questa possibilità. Essi incarnano il dubbio da cui in ogni epoca gli uomini sono stati attraversati. In fondo sembra così assurdo pensare che i nostri corpi alla fine dei tempi torneranno ad esistere nella loro concretezza fisica. Per noi infatti è più facile credere ad una vita futura solo spirituale, immateriale. Assieme all’incarnazione, la resurrezione dei corpi ci mostra che per Dio la realtà naturale e fisica non è da disprezzare, come un peso inutile di cui dobbiamo sbarazzarci. Spesso la Scrittura ci mostra come la vita terrena, con le sue implicazioni concrete, conferiscono a ciascun uomo un carattere definitivo che lo accompagna per tutta la sua esistenza anche dopo la morte: pensiamo al giudizio universale descritto in Matteo 25 in cui sono proprio le azioni concrete, e non solo i sentimenti che evidentemente esse manifestano, a determinare la salvezza o la perdizione eterna degli uomini dopo la loro morte. Questo brano ci dice che anche i sentimenti più nobili ed alti se non sono incarnati in gesti concreti non sono duraturi e si perdono.

Per comprendere questo abbiamo bisogno di un atteggiamento di fede, che non è un puro atto irrazionale di puntare su una carta qualunque fiduciosi che sia quella vincente. Noi infatti possiamo maturare la nostra fede proprio a partire dalla considerazione di come Dio ci vuol bene. Paolo dice infatti che “La fede non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.” Cioè mentre l’uomo può avere fede o meno, ma io direi anche, l’uomo in alcun momenti ha fede e in altri no, il Signore è sempre fedele. La sua fiducia nell’uomo si esprime principalmente nel ritenere che valga la pena comunque di continuare a indicargli la strada per una vita “beata”, cioè confermare, per porlo al scuro dal rischio di rovinarla, cioè custodire dal Maligno, nonostante le nostre resistenze e rifiuti. È Dio il primo ad aver fede in noi, anche quando non ci sono motivi per conservarla. Ha fiducia nella nostra capacità di convertirci e che il bene alla fine prevarrà anche in noi. Questa fede incrollabile di Dio nell’uomo viene prima ed è fondamento della nostra povera e malferma fede in lui. In questo senso possiamo ben dire che la fede è un dono di Dio: è il frutto della sua fiducia in noi che viene prima della nostra risposta fiduciosa in lui.
Se noi ci affidiamo e cediamo a questa fiducia di Dio sperimenteremo che nulla della nostra vita va perduto o dimenticato, che niente è disprezzato da Dio, ma anzi è valorizzato e preservato dalla nostra stessa tendenza a consumare e distruggere tutto.

Concludendo possiamo dire che è nella risposta all’amore di Dio che siamo resi capaci di amare, così come rispondere alla sua fiducia in noi ci rende capaci di aver fede il Lui.

Questa fede ci permette di affrontare senza fuggire la realtà della morte e attenderci una vita futura in cui continueremo ad essere “beati”, proprio perché Dio è fedele. Viviamo con questa fiducia la vita quotidiana, senza sprecare le occasioni di fare il bene e disprezzando come superflue le azioni che contribuiscono all’affermazione di esso e all’indebolimento del potere del male. Viviamo, come fece Gesù, come uomini e donne liberi, uomini e donne concreti amando la fisicità del voler bene, questa dimensione infatti non andrà perduta per sempre dopo la morte: Dio l’ha creata, assunta e amata e ce la restituirà alla fine dei tempi.

Per la vita

  1. Pietro Crisologo: “Inutilmente, o fratelli, ha abbracciato la fede, e inutilmente è vissuto, chi pensa di essere nato solo per morire. O uomo, che cosa sorge per te, che non tramonti? E che cosa tramonta per te che non risorga? Il sole ogni giorno nasce, ogni giorno muore: poi risorge la mattina. Le stagioni, quando passano muoiono, quando ritornano, rivivono. Perciò, o uomo, credi almeno ai tuoi occhi, non opporti alle cose che ti   predicano incessantemente la tua risurrezione. Prendi un chicco di frumento, scava la terra, seppelliscilo. All’improvviso rivive, diventa germe, cresce e matura, risorge in tutta la bellezza e la forma che tu piangevi morta.”

Sant’Efrem, diacono (Siria IV sec): Come è simile il morto a colui che si è addormentato, la morte al sonno, la risurrezione al mattino! Un giorno splenderà in noi la verità come luce nei nostri occhi, guarderemo la morte come immagine del sonno che desta inquietudine. Folle chi vede che il sonno finisce la mattina, e crede che la morte sia un sonno che dovrà durare in eterno! Se la speranza ravviva i nostri occhi, vedremo ciò che è nascosto: il sonno della morte finirà un mattino. Svanirà il meraviglioso profumo del tesoro della vita nel corpo, nella dimora dell’anima, donde era uscito. Bellissimo sarà il corpo, diletto tempio dello Spirito, rinnovato si muterà nella casa della beata pace. Allora squillerà la tromba sulle sorde arpe: «Svegliatevi, cantate gloria davanti allo Sposo! «Si sentirà un’eco di voci quando si apriranno i sepolcri, tutti prenderanno le arpe per suonare il canto di lode. Sia ringraziato il Signore che ha esaltato Adamo, anche se poi […] l’ha umiliato nel baratro! Gloria a lui quando umilia, gloria a lui quando risuscita. Anche la cetra suoni a Dio nel giorno della risurrezione!

Dalla liturgia, prefazio I dei defunti: In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore rifulge a noi la speranza della beata risurrezione, e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo (…).

PREGHIAMO: O Dio, Padre della vita e autore della risurrezione, davanti a te anche i morti vivono; fa’ che la parola del tuo Figlio seminata nei nostri cuori, germogli e fruttifichi in ogni opera buona, perché in vita e in morte siamo confermati nella speranza della gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen

4 Novembre 2016

About Author

Gianni De Luca Nasce in Abruzzo, a Tagliacozzo in provincia dell'Aquila. Dopo avere conseguito il diploma di ragioniere e perito commerciale, si trasferisce a Roma, dove, attualmente, vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio lavora due anni in Revisione e Certificazione dei bilanci prima di iniziare a collaborare con uno Studio associato di Dottori Commercialisti della Capitale. Decide, ad un certo punto, di seguire la nuova via che gli si è aperta e, così, consegue prima il Magistero in Scienze Religiose presso l'Istituto Mater Ecclesiae e, poi, la Licenza in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino in Urbe "Angelicum". Attualmente lavora come Insegnante di Religione cattolica negli Istituti di Istruzione superiore di Roma. Appassionato di Sacra Scrittura, tiene conferenze, anima da circa 20 anni un incontro biblico, presso l'Istituto M. Zileri delle Orsoline Missionarie del Sacro Cuore in Roma, e da circa 10 la Lectio divina sulle letture della Domenica presso la Basilica parrocchiale di Sant'Andrea delle Fratte. Animatore del gruppo di preghiera "I 5 Sassi", è organizzatore di pellegrinaggi e ritiri spirituali.


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