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Cosa celebriamo la Domenica? – Teologia della Messa, parte seconda
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Cosa celebriamo la Domenica? – Teologia della Messa, parte seconda

 

  1. La Domenica, giorno del Signore Risorto

Questa periodicità ha come fondamento la frequenza settimanale delle apparizioni del Risorto: la sera di quello stesso giorno (della risurrezione), il primo dopo il sabato; otto giorni dopo gli apostoli erano di nuovo riuniti e Gesù venne in mezzo a loro.

Nel Vangelo di Giovanni sembra proprio che tutte le manifestazioni siano avvenute ogni primo giorno della settimana. Poco a poco quel primo giorno dopo il sabato, poiché in esso si godeva della presenza di Cristo, fu chiamato «giorno del Signore», in latino dies dominica.

Troviamo questa espressione in Ap 1,10, dove l’autore del libro scrive: «Io, Giovanni… mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dalla Spirito nel giorno del Signore (die dominica)». Ormai questo nome aveva sostituito quello con cui gli Ebrei chiamavano quel giorno: feria prima, dopo il sabato che era il settimo giorno; ora si chiama giorno del Signore. I Romani lo chiamavano «il giorno del sole», e così lo chiamano ancora oggi gli inglesi e i tedeschi (Sunday, Sonntag). Per i cristiani, invece, il primo giorno della settimana, quello della risurrezione, è il giorno del Signore.

Questa stessa espressione si ritrova nella Didaché, al capitolo 10, addirittura rafforzata come “giornata signorile”: «nel giorno domenicale del Signore». L’espressione «del Signore» non si riferisce a Dio Padre (il Padre è signore del tempo e di tutti i giorni) ma al Kyrios, il Risorto. In quel giorno i cristiani incontrano il Signore riunendosi nell’assemblea liturgica: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono là in mezzo a loro». Egli si rende presente con la sua Parola, nei segni del pane e del vino; i credenti mangiano la cena con Gesù. La domenica è caratterizzata dalla celebrazione eucaristica: è il corpus dominicum, il dominicum convivium, il banchetto del Signore, che fa di quel giorno il giorno del Signore.

Quindi non celebriamo la Messa perché è domenica, ma è domenica proprio perché celebriamo la Messa. Senza l’Eucaristia, la domenica non è ciò che il suo nome esprime. Vivere la domenica senza partecipare all’Eucaristia, alla cena del Signore, è negarla. C’è una differenza tra il sabato degli Ebrei e la domenica dei cristiani. La parola sabato, shabat, significa riposo: è il settimo giorno, quello del compimento del creato. Noi invece non celebriamo il settimo giorno, ma il primo. Il settimo giorno è quello in cui Dio si riposò, il primo è quello in cui creò il mondo.

Le motivazioni della domenica, del giorno del Signore, ce le dà san Giustino nella sua prima Apologia (cap. 67). Scrivendo all’imperatore Antonino Pio, dice: «Facciamo questo – cioè l’Eucaristia – nel giorno del sole, perché in quel giorno Dio ha creato il mondo e in quello stesso giorno Gesù Cristo, nostro salvatore è risuscitato dai morti. Era stato crocifisso il giorno prima di quello di Saturno ed è risuscitato il giorno dopo di quello di Saturno, che è appunto il giorno del Sole, ed è apparso ai discepoli».

Il senso della domenica è dunque triplice: è il giorno della creazione, della risurrezione di Cristo e delle apparizioni, o manifestazioni, del Risorto. Il riposo festivo della domenica verrà dopo Costantino. Nel 325 le leggi di Costantino – e più tardi quelle di Teodosio – stabiliscono che «nel venerabile giorno del sole tutti si astengano dal lavoro». Prima di quella data i cristiani, nel giorno del sole, lavoravano come gli altri. Però prima di andare al lavoro celebravano l’Eucaristia, facevano la riunione, spezzavano il pane.

  • «Sine dominico non possumus»

È la testimonianza ormai famosa dei martiri di Abitene. In tempi di persecuzione, una cinquantina di cristiani ad Abitene, nell’Africa settentrionale, furono scoperti dalla polizia mentre uscivano da una casa dove avevano celebrato l’Eucaristia la mattina del giorno del sole. Le guardie domandarono: «Perché vi siete riuniti?». «Perché siamo fratelli», rispondono. «Che cosa avete fatto?». «Abbiamo celebrato il banchetto del Signore (Dominicum celebravimus)». «Ma lo sapete che è proibito?», insistono le guardie. Rispondono: «Ma noi non possiamo vivere senza la celebrazione del banchetto del Signore. Non possiamo vivere senza l’Eucaristia (Sine dominico non possumus)». Questa espressione viene di solito tradotta: «Non possiamo vivere senza la domenica», ma il testo latino dice di più. Domenica è una parola derivata da dominicum: è il corpo del Signore che fa di quel giorno il giorno del Signore.

Papa Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Dies Domini, parla di ragioni, motivazioni teologiche di fondo della domenica cristiana. Nei primi tempi, come già accennato, la cena del Signore o frazione del pane si faceva nelle case private[1].

Bisognerà aspettare Costantino, nel IV secolo, perché comincino a sorgere le basiliche, edifici di culto appositamente eretti dove radunare l’assemblea, diventata sempre più numerosa, e celebrare in una maniera ancora più solenne e strutturata – in realtà sappiamo oggi che esistevano chiese e addirittura basiliche già prima di Costantino perché la comunità cristiana tende per sua natura ad essere pubblica e visibile, ma certo è con lui che i grandi edifici di culto diverranno la norma.

La solennità della celebrazione è data anche dalla partecipazione. Celebrare significa festeggiare con altri: neppure una festa individuale come un compleanno si può festeggiare da soli.

La celebrazione è per sua natura un’assemblea e la parola celebrarein in latino significa anche frequentare. Le variazioni terminologiche indicano diversi aspetti: Paolo parla di cena del Signore, Luca di frazione del pane. Non vuol dire che il pane si spezza per necessità (perché non si può mangiare intero), ma per condividerlo, per darlo ai fratelli, la presenza dei quali è dunque costitutiva della celebrazione.

Già questo nome, che è diventato poi un termine tecnico, dice condivisione, parla di cena comune, di convito; forse il gesto deriva dalla cena ebraica in cui il primo gesto che faceva il padre di famiglia era quello di spezzare il pane azzimo.

  • Eucaristia

Che cos’è l’Eucaristia? È il sacrificio stesso del Corpo e del Sangue del Signore Gesù, che egli istituì per perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della Croce, affidando così alla sua Chiesa il memoriale della sua Morte e Risurrezione. È il segno dell’unità, il vincolo della carità, il convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della vita eterna (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 271).

Il terzo nome che questa celebrazione ha ricevuto nella tradizione cristiana è Eucaristia.

Non troviamo questo termine, come sostantivo, nel Nuovo Testamento, dove, invece, troviamo il verbo rendere grazie, ringraziare. Invece il sostantivo è nella Didachè o Dottrina dei dodici apostoli, uno scritto della fine del I secolo. Al capitolo 9 l’autore comincia così: «Riguardo all’Eucaristia, così rendete grazie».

La parola Eucaristia etimologicamente significa ringraziamento; dunque indica in primo luogo la preghiera di ringraziamento (quella che noi oggi chiamiamo Preghiera eucaristica), ma in quel contesto il termine indica tutto il rito. Il capitolo 7 era «riguardo al battesimo», il capitolo 9 inizia con «riguardo all’Eucaristia»: se il battesimo è un rito, e non semplicemente l’acqua, la parola Eucaristia nel cap. 9 indica tutto il rito.

Quindi la Didachè chiama Eucaristia quello che Paolo chiama Cena del Signore e Luca Frazione del pane. Nello stesso capitolo si dice: «Nessuno mangi e beva della vostra Eucaristia, se non chi è stato battezzato». Qui il termine Eucaristia indica il pane e il vino consacrati, perché su quel pane e quel vino è stata fatta la Preghiera eucaristica. La Preghiera eucaristica fa chiamare Eucaristia anche il frutto di quella preghiera, cioè il pane e il vino consacrati. Noi abbiamo conservato il termine Eucaristia lungo venti secoli di storia della Chiesa, ma soltanto in questo terzo senso. Avevamo perduto il significato etimologico della parola. Per cui, quando diciamo Eucaristia, istintivamente, siamo portati a pensare solo all’Ostia consacrata. Questa separazione indebita rischia di produrre grossi equivoci: se diciamo Eucaristia, pensiamo all’Ostia consacrata, al tabernacolo, alla comunione; se diciamo Messa pensiamo al sacerdote, all’altare, alla croce, alla Pasqua… Ma sono la stessa cosa. Questo equivoco viene dalla riflessione dei secoli successivi all’epoca antica. Studiando più a fondo la realtà della celebrazione, si cominciarono a fare distinzioni e separazioni che volevano essere semplicemente sottolineature di diversi aspetti, ma che poi hanno portato a indebite frammentazioni. Si voleva studiare in che modo il corpo di Cristo si trova presente nel pane, in che modo la Messa è sacrificio; ne sono venute fuori spiegazioni parziali che finirono per essere contrapposte. La problematica scoppiò, e in un certo senso fu risolta, al Concilio di Trento.

C’erano due obiezioni fondamentali:

La prima: i fratelli separati negavano la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, perché dicevano: nel momento in cui io mangio il pane mi unisco a Cristo, perché quel mangiare dice comunione con Cristo, ma fuori da quel momento, quell’alimento pane era e pane resta. Il Concilio di Trento (1551) precisò: noi, padri conciliari, crediamo che nell’Eucaristia è realmente, veramente, sostanzialmente presente il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di nostro Signore Gesù Cristo. Però lo stesso Concilio distinse: è vero che il corpo di Cristo, secondo il suo modo di essere naturale, sta in cielo (naturale, in greco fysikós), ma questo non toglie che, sacramentalmente, il corpo di Cristo sia in più luoghi. È la distinzione che abbiamo già spiegato tra corpo fisico e corpo sacramentale, che risale al Concilio di Trento, che distinse i due modi di essere.

La seconda questione è trattata in un decreto intitolato “Il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia” (la parola Eucaristia è accostata alla parola sacramento). I fratelli separati negavano il valore sacrificale di ogni Messa, che secondo la fede cattolica è il sacrificio di Cristo: non un altro o una ripetizione di quello, ma la presenza di quell’unico sacrificio. I protestanti invece dicevano che il sacrificio di Cristo è unico, ne abbiamo solo il ricordo, mentre l’Eucaristia è solo una cena, che chiamano Santa cena mutuando l’espressione da san Paolo.

Il Concilio di Trento precisò: è vero che Cristo è morto una volta sola, storicamente, sul Golgota, ed è vero che con quell’unico sacrificio ha reso perfetti tutti quelli che devono essere santificati (lo dice la lettera agli Ebrei in modo inequivocabile), ma perché quell’unico sacrificio fosse di continuo ri-presentato, cioè reso presente, e perché il suo memoriale permanesse nel tempo, Gesù stesso ha istituito il rito del sacrificio. La Messa dunque è sacrificio, ma non un sacrificio fisico, perché fisicamente Cristo è morto una volta sola.

Sant’Agostino aveva già risposto a quanti chiedevano come mai si dice che Cristo è morto una volta sola e pure si dice che muore ogni giorno. Il santo vescovo risponde: «Una volta sola in se stesso (in se ipso), ogni giorno nel sacramento (cotidie in sacramento)».

Il Concilio di Trento spiega la stessa cosa parlando di due pasque rituali: la Pasqua degli Ebrei era chiamata sacrificio, perché essi immolavano un agnello, noi non immoliamo di nuovo l’agnello ma rendiamo presente l’immolazione del vero Agnello, che ci ha salvati una volta per tutte.

  1. Un po’ di storia

“Fate questo in memoria di me” (1Cor 11,24-25). A questo comando del Signore obbediamo celebrando il memoriale del suo sacrificio. Facendo questo, offriamo al Padre ciò che egli stesso ci ha dato: i doni della creazione, il pane e il vino, diventati per la potenza dello Spirito Santo e per le parole di Cristo, il Corpo e il Sangue di Cristo: in questo modo Cristo è reso realmente e misteriosamente presente (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1357).

Fin dal secondo secolo, abbiamo la testimonianza di San Giustino martire riguardo alle linee fondamentali dello svolgimento della celebrazione eucaristica. Esse sono rimaste invariate fino ai nostri giorni in tutte le grandi famiglie liturgiche (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1345).

Per comprendere la celebrazione eucaristica di oggi, è necessario ripercorrere la storia bimillenaria della Messa. Lo faremo in modo molto rapido.

  • Dal I al III secolo

Dopo l’epoca apostolica, troviamo qualche indizio nel cap. IX della Didachè, nei capitoli 65 e 67 della I Apologia di san Giustino (sec. II) e nella Tradizione Apostolica, attribuita a Ippolito (III sec.). In questi testi abbiamo testimonianze chiare che il celebrante, colui che presiede l’assemblea (il praepositus, come lo chiama Giustino) fa una Preghiera eucaristica «secondo la sua capacità».

Giustino, in particolare, ci dà uno schema della celebrazione domenicale (cap. 67): «Nel giorno del sole tutti ci raduniamo dalle città e dalle campagne in uno stesso luogo, e prima si leggono le memorie degli apostoli e dei profeti, quanto il tempo consente [ancora non c’era il lezionario, ma si leggeva la Scrittura di seguito].

Poi colui che presiede ci fa una esortazione ad imitare questi nobili esempi [l’omelia]; poi tutti insieme preghiamo [la preghiera dei fedeli]; poi vengono portati a colui che presiede pane, vino ed acqua; colui che presiede fa una preghiera di ringraziamento secondo la sua capacità, tutti rispondiamo Amen; e dei doni così benedetti se ne distribuisce ai presenti e per mezzo dei diaconi se ne manda agli assenti».

Come si vede, lo schema della celebrazione è sostanzialmente quello che abbiamo ancora noi oggi. L’unico libro che si usava a quel tempo era quello della sacra Scrittura.

La Tradizione Apostolica ci tramanda un primo abbozzo di anafora, a cui si rifà l’attuale Preghiera eucaristica II, ma afferma che non è necessario che il celebrante la pronunci «quasi a memoria, ma secondo il senso».

Si celebrava, come già scritto, nelle case che i cristiani mettevano a disposizione della comunità. Queste case erano chiamate domus ecclesiae (casa della Chiesa), da cui poi domus ecclesia (casa-chiesa).

San Paolo, per es., saluta Ninfa e la Chiesa che si raduna nella casa (Col 4,15). Queste case private erano molto semplici. Il celebrante, vescovo o presbitero, non aveva vesti liturgiche speciali, ma vestiva come tutti.

 

  • IV e V secolo

Le cose cambiano sostanzialmente con Costantino, che riconosce ai cristiani la libertà di espressione e di culto. Inoltre l’imperatore regala al papa la basilica del Laterano, comincia a costruire egli stesso basiliche, sia a Roma, sia a Costantinopoli, e questi luoghi diventano tipici per la celebrazione.

  • La basilica

Si evita il termine tempio, perché i cristiani non ne hanno bisogno: il tempio, secondo le religioni, è la casa di Dio, ma Dio non ha bisogno di una casa. I fedeli devoti delle divinità pagane rimanevano fuori del tempio; l’ingresso era riservato solo ai sacerdoti (anche nel tempio di Gerusalemme, nel Santo dei Santi entrava solo il Sommo Sacerdote, un giorno all’anno, nel grande giorno dell’Espiazione). Il popolo rimaneva fuori, davanti (nello spazio pro-fano, cioè davanti al sacro). I cristiani, invece, sanno che Dio abita in Cristo, ed Egli è presente dove sono due o tre riuniti nel suo nome: noi siamo il vero tempio di Dio. Pertanto i cristiani hanno bisogno di un luogo dove riunirsi, e siccome i luoghi di riunione dei Romani erano chiamati basiliche, ampie sale coperte dove si tenevano il mercato, i comizi, i processi, essi chiamano basiliche i nuovi luoghi culto e li adattano alle esigenze delle celebrazioni. Nel fondo della sala c’è l’abside, rivolta a Oriente (principio che a Roma non viene sempre rispettato, ma idealmente l’abside rappresenta il sole che sorge). Al centro dell’abside c’è spesso una finestra da cui la mattina entra la luce: la luce è Cristo, il sole di giustizia che sorge, la luce del mondo. Sotto l’arco trionfale si colloca la mensa, che oggi è l’altare di pietra fissa, ma anticamente era di legno e si preparava al momento. Davanti all’altare c’è un recinto (si pensi alle basiliche di San Clemente, di Santa Sabina, di Santa Maria in Cosmedin in Roma), in cui sta la schola cantorum, il coro, chiuso da lastre di pietra o marmo decorate con rilievi di uccelli, piante, animali; riproduce dunque un giardino, quello del Golgota: «Vicino al luogo dove era stato crocifisso Gesù c’era un giardino e nel giardino una tomba nuova dove nessuno era stato sepolto». Se il recinto ripresenta il giardino, l’altare rende presente la tomba vuota. La pietra ribaltata dal sepolcro, sulla quale sedette l’angelo per annunciare alle donne È risorto! diventa invece l’ambone, cioè il luogo da cui il diacono annuncia la risurrezione, la lieta notizia, (eu-anghèlion appunto: il Vangelo). Anche l’architettura dell’edificio adibito a Chiesa celebra il mistero pasquale di Cristo.

  • Le vesti liturgiche

I vescovi, i sacerdoti, i diaconi, ricevono da Costantino anche il privilegio di avere abiti e insegne dei funzionari imperiali. Il vescovo, come l’imperatore, porta il pallio, siede sul soglio, porta i sandali, la tiara, la mitra…, i diaconi usano la dalmatica, veste dei senatori. Così la celebrazione si sviluppa anche nell’aspetto rituale e diventa più solenne. Si crea anche una certa separazione tra il luogo dei ministri (che si chiamerà santuario, o tribuna, o presbiterio), e la navata dove stanno i fedeli, distinti: uomini a Sud, donne a Nord, i fedeli avanti e i catecumeni dietro[2]. Per contro, all’evoluzione rituale, con un ricco cerimoniale di corte (inchini, genuflessioni, baciamani), corrisponde un’involuzione nella partecipazione dei fedeli. Mentre prima essi celebravano la cena del Signore in letizia e semplicità, in modo familiare e domestico, e tutti partecipavano, adesso il popolo tende ad allontanarsi, proprio perché l’apparato cerimoniale crea un po’ di timore e tremore e la partecipazione non è più così attiva come prima.

  • La lingua liturgica: dal greco al latino

Nella seconda metà del IV secolo la liturgia a Roma passa dall’uso della lingua greca alla lingua latina. Fino a questo tempo si celebrava in greco, perché il testo della S. Scrittura era in greco, ma il popolo non comprendeva il greco.

Ora si creano condizioni favorevoli per il cambio in favore della lingua parlata: a Roma, papa Damaso, che compone egli stesso carmi in latino in onore dei martiri, incarica Girolamo di rivedere un’antica traduzione latina della Bibbia. Contemporaneamente a Milano, Ambrogio compone inni in latino.

In Africa, dove non si comprendeva il greco, già Tertulliano, Cipriano e Agostino celebravano e parlavano in latino. In questo periodo felice (è l’età d’oro della patristica) anche in altre parti ci sono vescovi di grande valore e spessore intellettuale: Giovanni Crisostomo a Costantinopoli, Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno in Cappadocia, Martino di Tours…

  • I primi libri liturgici

Tutti costoro cominciano a comporre non soltanto inni e canti, ma anche preghiere in greco e in latino; dalle composizioni spontanee si comincia a passare a testi scritti. Si crea così un patrimonio di preghiere (testi eucologici) che almeno in parte sono arrivati sino a noi. Molti documenti a partire dal secolo IV ci riportano queste prime creazioni di preghiere, raccolte in codici chiamati sacramentari (contengono le preghiere per le celebrazioni dei sacramenti, primo tra essi l’Eucaristia). Tra i maggiori compositori di testi eucologici ricorderemo i Papi Leone Magno (440-461), Gelasio I (492-496), Vigilio (537-555) e Gregorio Magno (590-604). Per le letture, mentre prima la Bibbia era l’unico testo a disposizione, ora si organizzano antologie: si comincia con indici che riportano i capitoli biblici da leggere nei vari giorni (capitularia), poi si raccolgono per intero le pericopi, cioè i brani scelti per la lettura in tempi determinati. Nascono così evangeliari ed epistolari; per i canti si avrà l’antifonario o antifonale.

Si creano quindi libri diversi per la celebrazione. Questo significa che ci sono ministri diversi e ognuno ha il suo libro, che contiene solo la parte che a lui compete. Il sacramentario per il celebrante (vescovo o sacerdote), l’evangeliario per il diacono, il lezionario per il lettore, l’antifonario per i cantori: in questo modo la celebrazione è sempre una e comunitaria. Era una in ogni chiesa: ogni domenica, una sola. L ’unica celebrazione esprimeva la riunione dell’unico popolo di Dio. Anche oggi, la moltiplicazione delle celebrazioni ha senso solo per il gran numero di fedeli, che non potrebbe essere accolto in un unico momento celebrativo, ma moltiplicare le Messe dove non è necessario è controproducente, perché significa dividere la comunità. Il Giovedì santo, giorno in cui si ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, tuttora è permessa in ogni Chiesa solo una Messa. Il patrimonio eucologico si arricchirà ancora quando il rito romano soppianterà, per volere di Carlo Magno, il rito gallicano, in uso fino ad allora nei paesi franchi. I monaci Alcuino e Benedetto di Aniane, consulenti ecclesiastici dell’imperatore, comporranno Prefazi e altri testi, specialmente per le feste che a Roma non si celebravano e che quindi non avevano ancora testi definiti.

  • Il Messale plenario e la Messa “privata”

Verso la fine del primo millennio cominciano a moltiplicarsi le richieste di celebrazioni di Messe per ottenere una grazia, l’esaudimento di un voto. Saranno le Messe votive o per varie circostanze, per gli infermi, per i defunti e per altre necessità. Avviene così che si celebrano Messe per qualche fedele, ma non per la comunità cristiana. Diventa di pari passo necessario moltiplicare il numero dei sacerdoti, necessari per tutte quelle celebrazioni. Tenuto poi conto che la concelebrazione era ormai limitata solo alle Messe di ordinazione, nella stessa Chiesa si potevano celebrare tante Messe in contemporanea. Si moltiplicano così gli altari: il principale diventa l’altare “maggiore”, gli altri si chiameranno “minori” o “laterali” e, per distinguerli, avranno il titolo di un santo. In questa situazione, che senso aveva mantenere tanti libri quando non c’erano i ministri che dovevano usarli e tutto era fatto e detto dal sacerdote? Così, poco a poco, si va verso la compilazione di un unico libro, che contiene tutti gli elementi della celebrazione (letture, preghiere, canti), tutti affidati al solo sacerdote. Quest’unico libro, il Missale, ancora più nella sua forma ridotta (Missale parvumcon solo sette Messe, una per ogni giorno della settimana), divenne comodo per quei sacerdoti che dovevano spostarsi, come i predicatori francescani. La Messa, salvo quella “conventuale” o “capitolare”, diventa privata. Questa situazione di fatto verrà poi codificata, e il sacerdote dovrà leggere tutto anche quando ci sono i ministri (come nella Messa cantata o solenne): il diacono, il lettore o i cantori eseguono il loro ufficio ma, in contemporanea, chi presiede legge gli stessi testi.

  • Diminuisce la partecipazione del popolo

Con il tempo il popolo cristiano, più che partecipare alla Messa, come era anticamente, vi “assiste”. E per quanto riguarda la comunione, già san Giovanni Crisostomo in Oriente e sant’Agostino in Occidente lamentavano che molti cristiani, pur assistendo alla Messa, non la ricevevano. Il Crisostomo dice: «La mensa è pronta, nessuno viene a mangiare». A partire dai secoli VIII-IX, nascono le lingue neolatine (che in futuro diventeranno il francese, lo spagnolo, l’italiano) e la lingua ufficiale, il latino, comincia a non essere più compresa da tutti. Si assiste così a un allontanamento del popolo dalla celebrazione: non va a Messa perché non la capisce. Nel 1215 il Concilio Lateranense IV intuisce la necessità di una riforma, ma non affronta il nodo cruciale e segue la via disciplinare: con il can. 15 stabilisce che chi non va a Messa tutte le domeniche fa peccato mortale. Nasce così il primo precetto generale della Chiesa: udire la Messa la domenica e le altre feste comandate. Il popolo torna a Messa per obbedienza, ma continua a non capire. Per ovviare a questa difficoltà si tentarono alcune vie per favorire la comprensione di testi e gesti:

  1. a) la spiegazione allegorica della Messa, vista non come “ri-presentazione”, ma come rappresentazione della passione del Signore, anzi di tutta la vita di Cristo o, meglio ancora, di tutta la storia sacra. In ogni parte dell’Eucaristia si vedeva una corrispondenza con un evento della storia o della vita di Cristo: così si spiegava che fino al Kyrie si era nell’Antico Testamento, col Gloria si arriva a Natale, l’epistola è la predicazione di Giovanni Battista (perché parla prima di Gesù), il Vangelo è la predicazione di Gesù, l’annuncio del regno di Dio. La liturgia eucaristica è assimilata alla passione: lo svelamento del calice è Gesù spogliato dalle vesti, il sacerdote che si lava le mani ricorda il gesto di Pilato, quando allarga ed eleva le mani è il momento della crocifissione; quando si mette il frammento di pane consacrato nel calice è la sepoltura. Della risurrezione non si parlava. Il popolo pensava certamente a qualcosa di buono durante la Messa, ma non entrava nel mistero celebrato, non capiva che si trattava di un’azione non allegorica, cioè di un rito in cui ogni singolo elemento ha un corrispondente, ma di una celebrazione in cui tutta la cena rende presente tutta la Pasqua. A volte le allegorie erano talmente esagerate che diventavano quasi cervellotiche; perciò si parla di allegorismo[3].
  1. b) Altro tentativo di soluzione è il devozionalismo o il ricorso alle devozioni. Mentre il prete celebrava l’Eucaristia quasi per proprio conto, il popolo faceva le sue devozioni. Una delle più diffuse era il rosario, detto persino a voce alta mentre il sacerdote diceva la Messa sottovoce.
  1. c) La devotio moderna nasce come reazione alle devozioni fatte di pratiche e preghiere. Secondo questa corrente, la devozione – al singolare – consiste principalmente nella meditazione, nell’ascolto della Parola di Dio, nell’interiorità. Rappresentante classico di questa corrente, rimane il celebre testo della Imitazione di Cristo.
  • Dal Concilio di Trento al Vaticano II

I Padri del Concilio di Trento si trovarono a dover rispondere ad alcune obiezioni di fondo che i Riformatori protestanti avevano nei riguardi dell’Eucaristia e della sua celebrazione, e che ne svuotavano il senso: si finiva per negare, in vario modo, la fede nella presenza reale e permanente di Cristo nel pane consacrato e il valore sacrificale della Messa. Pertanto il Concilio si preoccupò di riaffermare la fede della Chiesa nell’esistenza stessa del sacramento, precisò cioè la parte teologico-dogmatica. Ma non trattò della riforma dei libri liturgici.  Il Concilio si chiuse il 4 dicembre 1563, affermando: «Non abbiamo il tempo di fare la riforma dei libri liturgici, la farà la sede apostolica». I Papi del dopo Concilio, da Pio V a Paolo V, dal 1568 al 1614, fecero quindi la riforma dei libri liturgici: il Breviario per l’Ufficio divino, il Messale, il Pontificale, il Rituale e il Cerimoniale.

  • Il Messale di Pio V

La riforma operata da Pio V con il Messale nel 1570 fu soltanto una piccola revisione del Messale già pubblicato precedentemente, nel 1475 a Milano. Di fatto, il Messale rimase quello di prima, con la differenza che, dopo il Concilio di Trento, il Messale Romano non era solo della Chiesa di Roma, ma di tutte le Chiese di rito romano sparse nel mondo. L’unica autorità, in fatto di liturgia, diventa soltanto la Sede apostolica, mentre prima ogni diocesi aveva la libertà di creare la propria liturgia. Potevano rimanere in vigore soltanto quei riti che vantavano una antichità superiore ai duecento anni. Così, ad esempio, è stato conservato il rito ambrosiano a Milano. Tanti altri riti, che pure erano antichi, furono di fatto sostituiti dal Messale Romano. I libri liturgici restavano in latino, quindi la situazione della partecipazione del popolo rimase immutata. Anzi si svilupparono forme di culto eucaristico fuori della Messa: la processione del Corpus Domini, l’adorazione, le Quarantore, le esposizioni del Santissimo Sacramento. Ma per quanto riguardava l’assistenza alla celebrazione eucaristica nulla cambiò: il prete diceva la sua Messa in latino e il popolo faceva le sue devozioni nella sua lingua.

  • Nasce la scienza liturgica

Dopo il Concilio di Trento, però, ci fu una riscoperta delle fonti più antiche; gli studiosi ritrovarono i documenti liturgici del primo millennio, furono scoperti e pubblicati gli antichi sacramentari (prima il gregoriano, poi il gelasiano, poi il sacramentario veronese e altri libri che erano molto più ricchi di contenuti e preghiere rispetto al Messale pubblicato da Pio V). Un solo esempio: il Messale di Pio V ha soltanto otto Prefazi, nella tradizione più antica ogni Messa aveva il suo[4]. Si riscopre quindi un repertorio eucologico di più ampio respiro. Dal Concilio di Trento fino al Vaticano II ci sono stati diversi studiosi che, pubblicando i codici liturgici del primo millennio, hanno spinto verso una riforma dei libri liturgici e la riscoperta della partecipazione del popolo. Tra questi ricordiamo alcuni italiani: il santo cardinale Giuseppe Tomasi, Ludovico Antonio Muratori, il beato Antonio Rosmini. Ma per molto tempo rimasero voci isolate e non ascoltate.

  • Il “Movimento liturgico”

Nel 1909 comincia il “movimento liturgico”. Si ispira a una frase dell’enciclica Tra le sollecitudini di Pio X: «Tra le sollecitudini del nostro ministero pastorale nulla ci sta più a cuore che la partecipazione attiva del popolo cristiano alle sacre celebrazioni». Il movimento liturgico parte da alcuni monasteri benedettini, prima del Belgio, poi della Germania, dell’Austria e poi anche in Italia, che hanno sempre promosso la partecipazione dei cristiani alla liturgia. Vanno qui ricordati almeno i nomi di Lambert Beauduin, Odo Casel, Romano Guardini, Pius Parsch e, in Italia, il cardinale Ildefonso Schuster e l’abate Emanuele Caronti. Si arriva così al 1947, quando Pio XII con l’enciclica Mediator Dei sollecita una rinnovata partecipazione dei fedeli alla divina liturgia, riconoscendo che il movimento liturgico è stato come un grande passaggio dello Spirito Santo nella Chiesa. Istituisce una Commissione per una riforma generale della liturgia, che dal 1948 al 1960 si occupa di un progetto di riforma generale che riesce a fare poche ma significative innovazioni: la restaurazione della veglia pasquale nella notte tra il sabato e la domenica (1951) e la riforma di tutta la Settimana santa (1955). Nel 1958 una Istruzione della Congregazione dei Riti sollecita la partecipazione del popolo. Il popolo, finalmente, può rispondere, sempre in latino: «Amen, Deo gratias, et cum spiritu tuo», mentre prima rispondeva solo il chierichetto: si sono sciolte così le lingue dei muti! La Commissione di Pio XII conclude i suoi lavori nel 1960, a Concilio Vaticano II già indetto, con il Nuovo Codice delle Rubriche.

  • Il Vaticano II

E si arriva così, con papa Giovanni XXIII, al Concilio Vaticano II. I padri del Vaticano II avevano già chiesto nelle loro lettere una riforma della liturgia, non soltanto per quanto riguardava i libri liturgici e il rito della Messa, ma anche per la lingua, che deve essere compresa dal popolo, e per l’adattamento alle varie culture. La prospettiva è dunque molto più ampia di una semplice riforma dei riti e dei libri liturgici. A quattrocento anni esatti dalla fine del Concilio di Trento, il 4 dicembre 1963, papa Paolo VI promulga il primo documento del Vaticano II, e precisamente la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (SC). Nell’omelia di quel memorabile giorno afferma con santo orgoglio: «Abbiamo rispettato la gerarchia dei valori: a Dio il primo posto, la preghiera nostra principale occupazione. È venuto il tempo in cui il popolo cristiano, con noi credente ed orante, sciolga la muta sua lingua, per cantare le lodi del Signore e le speranze umane». La Costituzione liturgica, nel suo primo capitolo, dopo aver presentato la liturgia inserita nella storia della salvezza e nella vita della Chiesa, stabilisce i criteri per la riforma della liturgia, in vista di quella «crescita della vita cristiana tra i fedeli», che è il primo scopo del Concilio (art. 1). Dopo il Vaticano II, sulla base dei principi e delle norme dettate dalla Costituzione, il Consilium, istituito da Paolo VI, produce una riforma generale della liturgia. Importante tra tutte la riforma del rito della Messa: il Messale torna ad essere non più un libro unico. Ora per celebrare l’Eucaristia siamo tornati a una molteplicità di libri che suppone una varietà di ministeri. Il Messale, in senso proprio, è a uso del celebrante e contiene le preghiere; il lezionario, molto più arricchito, secondo le indicazioni del Vaticano II («Siano aperti con maggiore larghezza i tesori della Parola di Dio») e in vari volumi (festivo, feriale, per le Messe dei santi…). Abbiamo anche un terzo libro, che è pure parte del Messale: l’Ordo Cantus Missae, il libro dei canti che, nelle varie lingue, devono essere approvati dalla Conferenze Episcopali (in Italia recentemente è stato approvato un repertorio di canti per la Messa). Siamo ritornati a una Messa che diventa celebrazione della comunità cristiana. Basti pensare che la descrizione della celebrazione eucaristica che c’era nel Messale di Pio V cominciava così: «Quando il sacerdote si è vestito dei paramenti, esce dalla sacrestia»; mentre la descrizione nel nuovo Messale comincia così: «Quando il popolo è radunato…». Prima non si teneva conto della parte del popolo, dimenticando che la celebrazione non è solo del sacerdote. Il sacerdote, in persona Christi capitis, presiede un’assemblea che, a suo modo, è tutta celebrante. Si tratta di un’azione comune; nella Chiesa antica si usava la parola sinassi, che significa esattamente: azione comune, co-agire; ognuno deve fare tutto e solo la parte che gli compete. Le preghiere, le tre presidenziali e soprattutto la Preghiera eucaristica, spettano al sacerdote, le letture al lettore, il Vangelo al diacono, i canti e i salmi al salmista e alla Schola, che anima il popolo tutto. Ognuno partecipa alla Messa svolgendo il suo ruolo e il suo ministero. La celebrazione è stata riformata non soltanto quanto ai testi, ma soprattutto per quanto riguarda il rito: l’Ordo Missae.

  • Il nuovo rito della Messa

Una prima domanda che si fecero i membri del Consilium fu la seguente: qual è la Messa normativa? Una volta era la Messa cantata; c’erano la Messa solenne, cantata e letta. In quella cantata il sacerdote cantava le parti a lui spettanti. Ora non c’è più distinzione tra Messa letta e cantata, perché ogni celebrazione eucaristica – come abbiamo affermato – comprende letture che vanno proclamate, preghiere che vanno proclamate e/o cantate e canti. Ogni elemento deve essere svolto secondo il suo genere letterario. La Messa normativa oggi non è più né quella letta, né quella cantata, ma quella con la partecipazione del popolo di Dio: una comunità che si riunisce per celebrare insieme il mistero di Cristo. Questo nuovo rito della Messa è stato riformato perché fossero più chiare, nella sua struttura e nell’ordinamento, le varie parti della celebrazione, in modo che si comprendesse bene lo svolgimento del rito, togliendo ed eliminando gli elementi che si erano sovrapposti nel corso dei secoli, come per esempio tante preghiere private del sacerdote (le apologie), e ripristinando alcuni elementi che si erano persi, come per esempio la preghiera dei fedeli. Il nuovo rito della Messa, prima di essere pubblicato, nel 1968-69, ha richiesto uno studio approfondito della sua storia, per vedere come ogni elemento celebrativo era stato introdotto nella liturgia, con quale significato, e se fosse il caso di mantenerlo, toglierlo o ripristinarlo. Questo studio storico previo era stato richiesto anche dal Concilio: «Prima di fare qualunque riforma è necessario che sia premesso uno studio della teologia, della storia dei singoli elementi». Così fu pubblicato il nuovo Ordo Missae preceduto da una Institutio Generalis o Ordinamento Generale del Messale Romano. Alcuni tuttavia hanno avanzato difficoltà e opposto resistenze; qualcuno ha chiesto addirittura a Paolo VI di ritirarlo, perché considerato eretico, dal momento che presentava punti di vicinanza con il modo di pensare protestante. Paolo VI non lo ritirò, ma lo fece rivedere e vi introdusse un proemio per spiegare che il nuovo Messale segue la tradizione costante della Chiesa. La Messa di oggi non è sostanzialmente diversa da quella antica, anzi il nuovo Messale è più arricchito e vario rispetto al precedente, ma è adattato alle nuove situazioni affinché la verità e la fede cristiane siano celebrate secondo la cultura attuale dei vari popoli. Il Messale fu pubblicato nella edizione tipica latina, perché il Concilio aveva dichiarato che l’uso della lingua latina doveva essere mantenuto nei riti latini, concedendo però che «non di rado, l’uso della lingua volgare può risultare di grande utilità per il popolo cristiano». Quindi, l’edizione tipica latina è proposta alle varie Conferenze episcopali perché ne curino la traduzione ed eventualmente un adattamento, da sottoporre poi alla conferma della Sede Apostolica. Abbiamo così, la prima edizione del Messale latino del 1970, 400 anni dopo l’edizione di Pio V, la seconda edizione nel 1975 e la terza edizione, promulgata dal papa Giovanni Paolo II, nel 2002; contemporaneamente è stato sempre ritoccato l’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR).


[1] L’idea, ancora piuttosto diffusa, per la quale i cristiani in tempo di persecuzione celebrassero nelle catacombe per nascondersi, non corrisponde a verità. Hanno contribuito a diffonderla romanzi come Quo vadis. Le catacombe erano cimiteri pubblici, conosciuti alle autorità civili. Solo occasionalmente, e in tempi di pace, i cristiani vi celebravano l’Eucaristia sulle tombe dei martiri, nel loro giorno natalizio, cioè nell’anniversario della loro morte.

[2] Questa nuova situazione (santuario, vesti, ecc.) si giustifica appellandosi al culto del tempio di Gerusalemme, alla “ordinazione” di Aronne, con purificazioni, vesti, unzioni. Mentre infatti prima si ordinavano vescovi, presbiteri e diaconi con la sola imposizione delle mani e la preghiera, ora si introducono vestizioni e unzioni (del capo per i vescovi, delle mani per i presbiteri).

[3] Tutte queste spiegazioni allegoriche sono state raccolte da Guglielmo Durando nel sec. XIII in un’opera intitolata Rationale divinorum officiorum.

[4] Sono stati publicati circa 1.600 Prefazi delle liturgie occidentali latine (romana, ambrosiana, gallicana e ispanica) nel Corpus Praefationum, ed. E. MOELLER, CCL 161, 161A.B.C.D.

 

24 Novembre 2016

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Gianni De Luca Nasce in Abruzzo, a Tagliacozzo in provincia dell'Aquila. Dopo avere conseguito il diploma di ragioniere e perito commerciale, si trasferisce a Roma, dove, attualmente, vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio lavora due anni in Revisione e Certificazione dei bilanci prima di iniziare a collaborare con uno Studio associato di Dottori Commercialisti della Capitale. Decide, ad un certo punto, di seguire la nuova via che gli si è aperta e, così, consegue prima il Magistero in Scienze Religiose presso l'Istituto Mater Ecclesiae e, poi, la Licenza in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino in Urbe "Angelicum". Attualmente lavora come Insegnante di Religione cattolica negli Istituti di Istruzione superiore di Roma. Appassionato di Sacra Scrittura, tiene conferenze, anima da circa 20 anni un incontro biblico, presso l'Istituto M. Zileri delle Orsoline Missionarie del Sacro Cuore in Roma, e da circa 10 la Lectio divina sulle letture della Domenica presso la Basilica parrocchiale di Sant'Andrea delle Fratte. Animatore del gruppo di preghiera "I 5 Sassi", è organizzatore di pellegrinaggi e ritiri spirituali.


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