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Letture e Commento alla VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
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Letture e Commento alla VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Non preoccuparsi, ma, occuparsi

Is 49, 14-15; Sal 61; 1Cor 4, 1-5; Mt 6, 24-34

 

Commento esegetico-teologico:

La prima lettura di questa domenica è un breve testo profetico tratto dall’insieme dei cc. 40-55 di Isaia, che gli studiosi moderni hanno chiamato “Secondo Isaia”. Si tratta di un profeta anonimo, vissuto all’epoca della deportazione in Babilonia, che ha composto testi importanti e originali. Egli è un fine teologo e un grande poeta, che ha saputo tenere viva la speranza degli esuli ebrei.

Il testo è uno dei più belli di tutto l’Antico Testamento e mette in luce un aspetto insolito dell’Amore di Dio: quello dell’amore di una madre. Sullo sfondo del lamento di Sion, che si ritiene dimenticato da Dio, il profeta intesse una riflessione appassionata sulla tenerezza dell’Amore divino paragonandolo all’amore materno. La parola profetica parte dalla considerazione di un caso-limite che l’esperienza umana conosce, e purtroppo confermata anche dalla cronaca recente dei nostri giorni. Sebbene l’amore materno spinga una madre ad aver cura della propria creatura fino a dare la propria vita, tuttavia esiste qualche rarissimo caso in cui una donna arriva ad abbandonare il proprio figlio. Ebbene, l’Amore di Dio è più tenero e sicuro di quello di una madre, perché è senza alcuna eccezione:

“Io invece non ti dimenticherò mai”.

In un momento di raccoglimento e di preghiera più intensa, cerchiamo di ascoltare dentro il nostro cuore, come il sussurro di una carezza materna, questa Parola stupenda: “Io invece non ti dimenticherò mai”.

Dice Clemente Alessandrino, nel suo “Quale ricco si salverà 37, 1-2”:

“Scruta i misteri dell’amore e allora contemplerai “il seno del Padre, che solo l’Unigenito Figlio di Dio ha rivelato” (Gv 1,18).

E “Dio stesso è amore” (1Gv 4,8.16) e attraverso l’amore per noi fu catturato… Il Padre per aver amato, si è fatto donna, e di questo è grande segno colui che egli generò da se stesso, poiché il frutto generato da amore è amore”.

Il prezioso e impegnativo brano di Matteo, che costituisce il Vangelo di questa domenica, sulla fiducia ­nella provvidenza divina è come una gemma inca­stonata tra due esortazioni a non affannarsi (vv. 25.34).

Viene dipinto dunque un uomo preoccupato, che si dà pensiero per il proprio domani, e si lascia prendere da un profondo stato d’ansietà di fronte alle necessità dell’esi­stenza: il cibo e il vestito, quali esempi di bisogni primari e perciò seri. Gesù chiede ai suoi discepoli di non lasciar­si soffocare dall’inquietudine, non grazie ad un ottimi­smo congenito nel carattere o ad uno sforzo della vo­lontà, ma solo in forza della fiducia che deriva dal sapere che Dio è nostro Padre, e nostra madre come dice la prima lettura, e che mantiene una relazione spe­ciale con ciascuno di noi.

Quando vi è la scelta profonda per il Re­gno, «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia», fondata nell’aver riconosciuto l’amore unico e sin­golarissimo che Dio ha per ognuno di noi, diventa real­mente possibile affidarsi a lui. A questo punto l’esempio degli uccelli e dei gigli non è un ingenuo affresco che ignora i drammi dell’esistenza, un invito a evadere i pro­blemi e a vivere nell’ozio, ma è l’esortazione a vedere le nostre preoccupazioni terrene nella loro giusta prospetti­va e proporzione. Questo è, in definitiva, possibile sol­tanto nella luce della fede nel Regno, che deve essere fat­ta di adesione concreta alla volontà di Dio, la sua giusti­zia.

Lo sguardo che Gesù getta sui gigli del campo e sugli uccellini del cielo non è quello di un trasogna­to ecologista, ma quello di un credente, il quale riconosce che «il Signore provvede il cibo ad ogni vivente, perché eterna è la sua misericordia» come afferma il Salmo 136,25.

La conclusione del brano è particolarmente densa di saggezza. Gesù non promette ai suoi discepoli un futuro senza preoccupazioni. Piuttosto, ci ricorda che esso non è a nostra disposizione, non è gestibile secondo i nostri progetti, perché il domani avrà sempre nuovi pro­blemi di cui bisognerà tenere conto a suo tempo. Questo contrasta molto con la nostra cultura, che vorrebbe pianificare ogni cosa! Al discepolo è chiesto invece di allenarsi quotidianamente nell’affidamento fiducioso a Dio, anche in mezzo alle varie tribolazioni. Questo atteggiamento è l’unico che permette di non essere angosciati di fronte al futuro.

Nella seconda lettura odierna Paolo tratta dei ministri di Dio e della comunità.

Il primo problema che Paolo affronta nella 1Corinzi è quello delle lacerazioni presenti nella comunità. Egli afferma anzitutto che esse dipendono dalla ricerca di una sapienza puramente umana (1,18 – 3,4), ma sottolinea anche che un’altra causa sono i rapporti sbagliati che i membri della comunità hanno stabilito con i diversi predicatori che hanno annunziato loro il vangelo (3,5 – 4,21). È quindi importante precisare i rapporti che i corinzi devono avere con essi. Dopo aver delineato il loro ruolo nella comunità (cfr. 3,5-23), Paolo passa a indicare quali sono le condizioni perché questa abbia con loro un rapporto corretto (4,1-13). Egli torna qui a parlare in prima persona plurale, poi passa al singolare e infine ritorna al plurale: di fatto egli parla di se stesso e in una certa misura anche di Apollo, sempre però con l’intenzione di dare indicazioni di carattere più generale. La liturgia riprende la prima parte dell’argomentazione di Paolo, in cui egli sottolinea che i ministri della comunità possono sbagliare ma in forza del loro ruolo, non possono venire giudicati da essa (4,1-5).

Anzitutto l’Apostolo ricorda che egli deve essere considerato come «servo di Cristo e amministratore (oikonomos) dei misteri (mystêria) di Dio»: questi misteri, che gli sono stati conferiti e che egli deve mettere a disposizione della comunità, si identificano con la sapienza di Dio, che è misteriosa, in quanto è nascosta agli occhi dei sapienti di questo mondo ma si è resa visibile in Cristo crocifisso (cfr. 2,1.6-7). Pur parlando di se stesso egli si esprime in prima persona plurale, in quanto intende fare un’affermazione di carattere generale. Da questo principio ricava una conseguenza di carattere generale: dagli amministratori, in quanto prestatori d’opera, non si richiede se non di essere fedeli a colui per il quale lavorano (v. 2).

Dopo queste premesse l’apostolo passa a parlare di se stesso in prima persona singolare: per lui ha ben poca importanza il fatto di essere giudicato dai corinzi o anche da un qualsiasi altro tribunale umano, anzi neppure lui si sente autorizzato a giudicare se stesso. Egli rifiuta una procedura di questo tipo non solo se è compiuta da altri, ma ritiene di non essere autorizzato neppure lui ad applicarla a se stesso. Infatti, anche se non si sente consapevole di qualcosa, cioè di aver commesso qualche sbaglio nel suo ministero presso di loro, non per questo si ritiene giustificato, riconosciuto innocente. Nessun tribunale umano è dunque competente nei suoi confronti: solo Dio è il giudice che, nel momento finale della storia umana, dovrà emettere una sentenza definitiva nei confronti di ogni uomo, e in modo speciale dei suoi ministri.

Di conseguenza Paolo invita i corinzi a evitare qualunque pre-giudizio: «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode» (v. 5). Solo Dio potrà giudicare in modo veramente oggettivo, perché è l’unico che possa scrutare l’uomo nel profondo del suo cuore: di fronte a lui infatti non contano le opere esterne, ma le intenzioni più profonde. È significativo però che, parlando del giudizio divino, l’Apostolo menzioni solo il verdetto positivo: a ciascuno verrà la lode da parte di Dio.

Paolo, dunque, si mette al riparo da eventuali critiche da parte dei corinzi appellandosi al giudizio finale di Dio. Egli però non intende sottrarre il suo operato a ogni tipo di controllo o a una critica costruttiva da parte della comunità. Ciò che esclude tassativamente è l’atteggiamento di chi, ponendosi al di fuori di una dinamica di partecipazione e di solidarietà, vorrebbe giudicarlo e condannarlo in base a criteri o attese che non hanno nulla a che vedere con quelli che sono i fondamenti e le finalità della comunità stessa. L’annunzio del Vangelo dà origine a un’aggregazione di persone che fondano la loro unione esclusivamente su Cristo e sulla salvezza da lui realizzata nella debolezza e nella sofferenza della croce. Su questo punto nessuno può giudicare l’apostolo, ma chiaramente non può neppure giudicare gli altri membri della stessa comunità. In altre parole nessuno deve giudicare gli altri in base alle proprie idee, ai propri interessi personali o di gruppo, alla propria interpretazione del cristianesimo. Questo meccanismo, oltre che tradire la dinamica della salvezza, è la causa principale dei contrasti e delle divisioni che emergono in seno a una comunità. Le molteplici eresie che punteggiano la storia della chiesa lo dimostrano ampiamente.

Questo non significa naturalmente che i capi e i singoli membri della comunità siano sottratti al controllo di tutti gli altri. In una comunità questo controllo avviene attraverso la solidarietà reciproca, in forza della quale ciascuno è accolto per quello che è ed è ascoltato fino in fondo, sentendosi così libero di esprimere senza reticenze il proprio punto di vista. Proprio questa possibilità di «dire tutto» (parresia) aiuta le persone a rendersi conto di ciò che portano in sé e in ultima analisi a correggere se stesse. In questo processo un’autorità che viene da Dio e a lui deve rispondere si manifesta essenzialmente nella capacità di creare l’unità di tutti in ciò che riguarda il cammino di fede, salvaguardando al tempo stesso il pluralismo delle forme in cui tale messaggio viene incarnato nella vita di ciascuno. Se ciò non si verifica, la comunità cade inevitabilmente, come si è verificato a Corinto, nella logica dei partiti che si contrappongono e alla fine si escludono a vicenda.

 

Messaggio di questa Domenica:

Vietato affannarsi!

Oggi, ancora una volta il Vangelo ci si presenta sotto le vesti del paradosso. Sì, questo discorso di Gesù sembra veramente incredibile secondo i criteri della logica ordinaria. Infatti l’atteggiamento tipico dell’uomo e della donna moderni è quello di chi deve innanzitutto capire. Prima di poter vivere qualcosa dobbiamo capirla, prima di fare un’esperienza dobbiamo aver chiaro dove ci porta e come si realizza, prima di scegliere per un modo di essere piuttosto che un altro dobbiamo avere chiarezza su tutto. Questo atteggiamento “razionalista” fa sì che spesso davanti alle parole del Vangelo restiamo turbati o anche freddi. Infatti troppe volte esse non si spiegano o sembrano non tenere in sufficiente considerazione le conseguenze e le modalità della loro realizzazione nella vita di tutti i giorni, come fossero aspetti secondari e senza importanza.

Esiste anche un’altra conseguenza di questo atteggiamento, cioè che aver capito qualcosa ci sembra sufficiente: lo sappiamo, ci è chiaro, cosa serve fare di più? È quello che facciamo, ad esempio, nei confronti di tanti insegnamenti del Vangelo, che conosciamo a memoria, ma che non si traducono poi in comportamenti, senza che ciò ci susciti un dubbio sulla nostra coerenza.

Il Vangelo però, ma direi che ancora prima la vita, non si accontenta di una comprensione razionale delle sue espressioni, né pensa che questa sia lo scopo più importante da raggiungere. Per il Vangelo c’è una priorità del vivere, dello sperimentare, e capire per esso non è un fatto puramente razionale ma significa essenzialmente tradurre in gesti e vissuto concreto le parole ascoltate e gli insegnamenti ricevuti. Sì perché non tutto si spiega e si capisce con la mente, molto lo si capisce solo se lo si vive, e per farlo ci si deve, almeno un po’, fidare. Solo in questo caso raggiungiamo una chiarezza, anche se non propriamente razionale, delle realtà e ne comprendiamo la bontà profonda: solo se ci fidiamo e ne facciamo esperienza. È questa la fede ingenua, da bambino, alla quale il Signore ci invita.

Così è anche per il brano del Vangelo di Matteo che ascoltiamo in questa domenica: non lo capiamo se cerchiamo di analizzarlo razionalmente, ma se proviamo a viverlo avvertiamo chiaramente la sua verità profonda, esistenziale, e non solo logica.

Infatti al giorno d’oggi una delle doti più apprezzate ed esercitate è quella del fare compromessi. Bisogna combinare tanti interessi, tanti impegni, tante preoccupazioni in modo tale che l’alchimia della nostra vita ne risulti un equilibrio il più possibile stabile. Così è per gli affetti, e per i rapporti che non possono essere esclusivi, quanto meno perché non si possono azzerare le mie esigenze che devono avere lo spazio adeguato. Questo modo di vivere ha eliminato l’idea di priorità, o quanto meno che non ce n’è una assoluta, ma tutto va contrattato giornalmente, sulla base degli umori, delle situazioni, delle mie esigenze personali, ecc…

È questo quello che le parole del Signore del Vangelo di Matteo di oggi vengono a negare: esiste una priorità assoluta, sempre valida; c’è qualcosa che viene prima e che prevale su tutto, c’è un primum che sovrasta e precede tutto il resto. Questo primum è l’amore di Dio. Amore innanzitutto offertoci da Dio, che fa il primo passo e prende sempre l’iniziativa di venirci incontro, ma che allo stesso tempo esige di essere ricambiato, senza rimandi né posponimenti. Questo è ciò che vuole dire Gesù quando afferma: Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.”

Cioè la nostra preoccupazione per il nostro benessere a volte non si rende conto che esso c’è già, perché Dio è il primo a preoccuparsene, e già ci garantisce molto. Ma noi, presi dalla foga e fissati con noi stessi, pensiamo che non basti mai e che bisogna sempre averne di più. Non basta un fisico sano, deve essere anche snello o muscoloso; non basta avere di che vivere agiatamente, bisogna accumulare beni oltre ogni necessità; non basta che i nostri cari stiano bene, devono avere sempre un surplus di attenzioni e di cose. Ma tutto ciò, se ci pensiamo bene, è innaturale e non sempre ottiene quello che ci sembra lo scopo, cioè la felicità nostra e dei nostri cari.

Riempire di cose e di un benessere ossessivamente cercato non sempre vuol dire essere felici. Pensiamo ai nostri bambini. Spesso questo nostro atteggiamento instilla in loro, fin dalla tenera età, una forma di egocentrismo ed egoismo che fa sì che il bisogno degli altri scompaia e il fratello e la sorella non abbiano rilevanza alcuna. Questa è la più pesante eredità che possiamo lasciare ai nostri figli, una vera e propria condanna all’infelicità.
Prima di tutto ci dice Gesù, rendiamoci conto di quanto siamo amati: quanto abbiamo, quante possibilità ci sono offerte, quante opportunità di essere voluti bene, quanta sicurezza e assenza di bisogno. Trascurare ciò, cioè non riconoscere quanto Dio si preoccupi, lui per primo, di noi, è una causa di infelicità.

Secondo poi c’è bisogno di ricambiare tutto questo amore e talenti che ci sono offerti, vivendo la gratitudine verso Dio, e chi è grato sa essere felice, mentre chi non lo è, è sempre intristito e recriminatorio, e vivendo il desiderio di dare a chi ne ha bisogno parte del molto che abbiamo a disposizione.

Mettere prima di tutto e davanti a tutto l’amore che ci è dato e che ci è chiesto e lo sforzo di non lasciarlo cadere, ma di viverlo con fedeltà, è quella priorità assoluta di cui parla Matteo e che a prima vista ci sembra così assurda e incomprensibile.
Ma se proviamo a vivere così ci accorgeremo di quanto è vero che: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.”

Sì, o saremo schiavi del padrone normale che siamo noi stessi e l’egocentrica smania di avere sempre di più, dalle attenzioni, alle cose, fino al benessere, ecc…, o saremo figli di un Dio che ci dona gratuitamente il suo amore e ci insegna a farlo nostro e moltiplicarlo, volendo bene dello stesso amore generoso e disinteressato gli altri. Cerchiamo dunque di realizzare il regno di giustizia in cui a nessuno manchi ciò che è necessario e non quello in cui a me non manchi il superfluo e il non necessario, vivremo così sempre nell’abbondanza perché sarà Dio per primo a preoccuparsi che nulla ci manchi e che la nostra felicità sia piena.

 

Per la vita:

Un giorno, ad Alessandria d’Egitto, Serapione incontrò un povero intirizzito dal freddo. Allora disse tra sé: «Come mai io che passo per asceta sono rivestito di una tunica, mentre questo povero, o piuttosto Cristo, muore di freddo? Certamente, se lo lascio morire, sarò condannato come omicida nel giorno del giudizio».

Allora si spogliò come un valoroso atleta e diede il suo vestito al povero; quindi si sedette con il piccolo Vangelo che portava sempre sotto il braccio.

Passò una guardia e, vedendolo nudo, gli chiese: «Abba Serapione, chi ti ha spogliato?». Mostrando il suo piccolo Vangelo, rispose: «Ecco chi mi ha spogliato».

Mentre se ne ripartiva, incontrò un tale che era stato arrestato per un debito, perché non aveva da pagare. Allora l’immortale Serapione vende­tte il suo piccolo Vangelo e pagò il debito di quell’uomo.

Quindi ri­tornò nella sua cella nudo.

Quando il suo discepolo lo vide nudo, gli chiese: «Abba, dov’è la tua tunica?». L’anziano gli disse: «Figlio, l’ho manda­ta là dove ne avremo bisogno». Il fratello chiese: «Dov’è il tuo piccolo Vangelo?». L’anziano rispose: «In verità, figlio, ho venduto colui che mi di­ceva ogni giorno: “Vendi quello che possiedi e dallo ai poveri”; l’ho venduto e dato via per avere più fiducia in lui, nel giorno del giudizio».

I PADRI DEL DESERTO, Detti editi e inediti, Magnano 2002, 38s..

 

 

 

 

24 Febbraio 2017

About Author

Gianni De Luca Nasce in Abruzzo, a Tagliacozzo in provincia dell'Aquila. Dopo avere conseguito il diploma di ragioniere e perito commerciale, si trasferisce a Roma, dove, attualmente, vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio lavora due anni in Revisione e Certificazione dei bilanci prima di iniziare a collaborare con uno Studio associato di Dottori Commercialisti della Capitale. Decide, ad un certo punto, di seguire la nuova via che gli si è aperta e, così, consegue prima il Magistero in Scienze Religiose presso l'Istituto Mater Ecclesiae e, poi, la Licenza in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino in Urbe "Angelicum". Attualmente lavora come Insegnante di Religione cattolica negli Istituti di Istruzione superiore di Roma. Appassionato di Sacra Scrittura, tiene conferenze, anima da circa 20 anni un incontro biblico, presso l'Istituto M. Zileri delle Orsoline Missionarie del Sacro Cuore in Roma, e da circa 10 la Lectio divina sulle letture della Domenica presso la Basilica parrocchiale di Sant'Andrea delle Fratte. Animatore del gruppo di preghiera "I 5 Sassi", è organizzatore di pellegrinaggi e ritiri spirituali.


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