Letture: At 2, 42-47; I Piet 1, 3-9; Giov 20, 19-31
Commento esegetico – teologico
Il brano del Vangelo di questa domenica, terza lettura, narra due apparizioni di Gesù ai discepoli: la prima, la sera stessa di Pasqua; l’altra, otto giorni dopo. Essi sono radunati per paura dei Giudei; le porte sono chiuse, sbarrate; eppure Gesù entra tranquillamente e misteriosamente, con il suo saluto: «Pace a voi». È superfluo dire che i discepoli furono pieni di gioia, ritrovandosi alla presenza di quel medesimo Gesù con cui avevano condiviso tante esperienze e speranze.
Gesù li manda a predicare nel mondo e conferisce loro lo Spirito Santo e il potere di rimettere i peccati. Può nascere il problema di confrontare questa «Pentecoste giovannea» con quella narrata da Luca come avvenuta cinquanta giorni dopo la pasqua. Giovanni, dato che non parla della Pentecoste, non aveva altro mezzo di ricordare l’adempimento della promessa dello Spirito Santo se non con questo anticipo la sera di Pasqua.
Luca invece, all’inizio della sua seconda opera, gli “Atti degli Apostoli”, potrà descrivere con un linguaggio più ampio, con una messa in scena più ricca, il conferimento dello Spirito. I due racconti non si contraddicono; Tommaso, assente quella sera, dubita di quanto gli riferiscono, o almeno ne ha un’impressione negativa, che fosse un po’ pessimista appare già in altre circostanze descritte dal Vangelo di Giovanni. Però alla nuova apparizione risponde con la più chiara professione di fede cristiana: Gesù è Signore e Dio!
La fede di Tommaso è approvata, ma non è la forma più perfetta: ha bisogno dell’appoggio del segno come di una stampella; la fede che merita una beatitudine particolare, è quella di chi crede sulla parola del Figlio di Dio anche senza vedere!
Segue la finale del libro di Giovanni, il cap. 21 è un’aggiunta: «Tutto è stato scritto perché crediate (…) e credendo abbiate la vita nel suo nome».
La Pasqua ha fatto sbocciare la vita cristiana: nella prima lettura, un breve sommario descrive la vita della Comunità primitiva. Essa rimane un modello per le nostre comunità, se non proprio nel modo, certo nei princìpi con cui organizza la sua esistenza. Alcuni momenti caratterizzano la sua vita: assiduità, o meglio, perseveranza nell’ascolto della Parola, annuncio delle opere di Dio, la vita di Gesù, la risurrezione ecc.; unione fraterna nella pratica del comandamento dell’amore, che si manifesta nei pasti in comune, al termine dei quali si celebra l’eucarestia; e nella preghiera.
Questa consisteva nella recita di salmi, letture, pur prendendo parte ancora alla preghiera ufficiale ebraica al tempio». C’è anche una certa comunanza dei beni, non obbligatoria, non assoluta come specificherà Atti 4, 32, ma una continua libera disposizione da parte di chi possiede, a favore dei fratelli più poveri. Per questo, essi godono la stima di tutto il popolo e rendono credibile con la loro condotta la fede che professano. Della loro spiritualità interiore sono sottolineati due aspetti: un senso di timore per i prodigi di cui sono testimoni, da intendere nel senso biblico di «timore reverenziale» pieno di amore e una profonda letizia, che è il pregustamento del banchetto celeste quindi una gioia di orientamento escatologico.
La seconda lettura riporta la preghiera con cui san Pietro inizia la sua lettera, subito dopo il saluto. La formula di benedizione usata nell’A.T. per lodare Dio, come in Genesi 14, 20, è diventata cristiana; ora però i benefici per cui si loda sono soprattutto legati alla persona di Cristo, e in particolare alla sua risurrezione: una speranza viva, una eredità che non si corrompe. L’atteggiamento fondamentale è la gioia: «ricolmi di gioia», proprio in mezzo alle varie prove, che purificano, come l’oro, la fede. Il paradosso cristiano sta diventando realtà.
Messaggio di questa Domenica
La liturgia della Parola di questa Seconda domenica di Pasqua inizia in un modo che ci può apparire “strano”: inizia con la Chiesa. Inizia con la Chiesa che Luca contempla nel più celebre ed amato dei cosiddetti “sommari” del suo secondo libro gli Atti degli Apostoli.
Poche parole che, più che una cronaca o una memoria strettamente storica, bisognerebbe definire un “sogno” … o meglio, Luca ci sta parlando di una comunità concreta, la prima comunità cristiana, quella di Gerusalemme, quella che dobbiamo definire Chiesa madre, ma ce ne sta parlando dicendoci più che la sua piena realtà la sua vocazione, la sua tensione, una vocazione e tensione che diventano normative per tutte le comunità che vogliono essere Chiesa del Cristo crocifisso e risorto!
Nella pagina di Atti quattro “luoghi” identificano una simile comunità: l’ascolto dell’insegnamento apostolico, la “koinonìa” (la comunione fraterna), la frazione del pane e la preghiera.
Luca prima elenca questi quattro “pilastri” e poi ce li mostra in una descrizione di una semplicità e di una forza straordinarie … tanto straordinarie che, in due millenni di storia della Chiesa, queste parole hanno acceso i cuori di tutti quelli che hanno preso sul serio il Vangelo; chiunque voglia davvero seguire Gesù, infatti, comprende che la via è questo “sogno” di Luca … un “sogno” che mette nel cuore una sete infinita di autenticità e umanità. Non una “chimera” ma una vera “utopia”, un luogo cioè che non c’è ancora, ma che si può e deve raggiungere, una Terra Promessa a chi si lascia davvero visitare dal Risorto e dalla sua vittoria “costosa”.
La liturgia di oggi, in fondo, canta ancora il Risorto cantando il suo Corpo ancora possibile nella storia: la Chiesa. Il Corpo del Risorto oggi ha una sola possibilità di mostrarsi all’umanità: la Chiesa!
Il Nuovo Testamento parla della Chiesa come Corpo di Cristo perché la Chiesa ha l’unica vocazione di rendere visibile la presenza di Cristo e di compiere i suoi atti nella storia. Questo potrà farlo solo se sarà ciò che Cristo ha “sognato”. Il Vangelo di oggi pone sulle labbra di Gesù una parola chiave chiarissima e “ad alti costi”: Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. È posto un chiaro parallelo tra la missione di Cristo, Verbo eterno, venuto a narrare la gloria del Padre fino all’innalzamento sulla croce e la missione della Chiesa che deve narrare la gloria del Verbo nell’amore fino all’estremo.
Quelle piaghe mostrate dal Risorto sono una provocazione e non solo un modo per farsi riconoscere, una provocazione che dovremmo saper collegare strettamente a quel “come” … “Come” Gesù ha compiuto la sua missione? Fino a quelle piaghe! I discepoli gioiscono di quei segni che mostrano la gloria dell’amore, ma poi dovranno imparare a portarne il “costo” come scriverà Giovanni nella sua Apocalisse (10, 8-11) quando ci mostrerà un libro da divorare, il Vangelo, che nella bocca è dolce come il miele ma che diviene amarezza nelle viscere … la gioia pasquale sarà la forza per portare quel “come” in una sequela che o è tensione verso l’ amore fino all’estremo o diventa “via religiosa” rassicurante se non addirittura, per alcuni, via di potere e dominio sugli altri.
Il Risorto consegna ai suoi il ministero della riconciliazione, della proclamazione della remissione dei peccati non come potere arbitrario, ma come una assoluta priorità e necessità ineludibile. Se la Chiesa non rimetterà i peccati questi resteranno non rimessi: non è un potere ma una responsabilità!
L’annunzio della misericordia pasquale va fatto da una comunità riconciliata ed incamminata su quella via luminosa che Luca ci ha tracciato in Atti. La remissione dei peccati non è solo un atto sacramentale in senso stretto ma uno stile quotidiano che è segnato dalla reciproca misericordia e dalla vita riconciliata dei fratelli. In tutto questo il sacramento della riconciliazione è l’apice potente di uno stile di vita e di relazioni; sempre più noi credenti dobbiamo lottare a che il nostro stile ecclesiale sia quello in cui lo stesso sacramento della riconciliazione non suoni come un atto staccato dalla vita tutta, come un atto “giudiziale” che rimette a posto le cose ma senza legami con un clima e uno stile che siano il quotidiano della vita fraterna nella Chiesa.
Questo stile ecclesiale fraterno è il grande frutto della Pasqua di Cristo; una comunità di fratelli radunata dall’Innalzato sulla croce e Vivente per sempre non può non essere che una comunità che, già vivendo il quotidiano e le relazioni, sia annunzio di misericordia, di remissione dei peccati, di un modo “altro” di essere uomini: Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi.
Lo Spirito che il Cristo soffia su quell’“embrione” di Chiesa, chiuso nel cenacolo e attanagliato dalla paura, gli darà la vita vera rendendolo capace di essere prolungamento del Corpo del Risorto nella storia e questo, “in primis” nella remissione dei peccati.
Lo stesso incontro con Tommaso che chiude il Vangelo di oggi è lì a ribadire lo stile di una comunità riconciliata. Tommaso è icona di un fratello perduto, di un fratello che “non era con loro quando venne Gesù”, Tommaso non è con i fratelli e poi non crede alla loro testimonianza pasquale insistente e reiterata, gli dicevano gli altri discepoli: è importante quell’imperfetto in quanto ci indica un’azione continuata, ripetuta, Tommaso mette tra lui e la fede pasquale il buon senso della ragione che vuole le verifiche. Lo stile di Cristo è andarlo a cercare nella sua incredulità, lo stile di Cristo è andare a recuperare il “lontano” nella sua lontananza, è avere nel cuore la certezza che senza Tommaso si è più poveri, manca un pezzo! A Tommaso Gesù consegna, senza addolcimenti, la verità del suo peccato, ma gli si offre anche con le sue ferite aperte per lui!
Tommaso così si lascia riconciliare; certo, Tommaso poteva essere il primo di noi che crediamo senza aver visto ma non ne ha avuto la forza e la beatitudine di Gesù scende sul nostro povero capo e non sul suo di Apostolo; Tommaso sarà Apostolo come gli altri che hanno visto ma forse la sua vera vocazione sarebbe stata quella di essere il primo dei credenti che non hanno visto. La vicenda di Tommaso però diventa per noi Vangelo, diventa apertura alla Chiesa che verrà, la Chiesa di quelli che lo amano senza averlo visto, come scrive Pietro nella sua Prima lettera … Apertura a quella Chiesa che avrà un solo modo di “vedere”: attraverso il Vangelo che è scritto perché nasca la fede. Su quel Vangelo la Chiesa pone le sue fondamenta, su quel Vangelo la Chiesa si mette in cammino verso quell’utopia attraverso cui avrà la vera possibilità di narrare al mondo il Risorto.
Per la vita
COS’È E COME È NATA LA FESTA DELLA DIVINA MISERICORDIA
Fu istituita da Giovanni Paolo II nel 1992 che la fissò una settimana dopo la Pasqua. A volerla, secondo le visioni avute da suor Faustina Kowalska, la religiosa polacca canonizzata da Wojtyla nel 2000, fu Gesù stesso.
La festa della Divina Misericordia è stata istituita ufficialmente da Giovanni Paolo II nel 1992 che la fissò per tutta la Chiesa nella prima domenica dopo Pasqua, la cosiddetta “Domenica in albis”.
DOVE È STATA CELEBRATA PER PRIMA QUESTA RICORRENZA?
Il card. Franciszek Macharski con la Lettera Pastorale per la Quaresima (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fatto i vescovi di altre diocesi in Polonia. Il culto della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santuario di Cracovia – Lagiewniki era già presente nel 1944. La partecipazione alle funzioni era così numerosa che la Congregazione ha ottenuto l’indulgenza plenaria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam Sapieha. Dalle pagine del Diario sappiamo che suor Faustina Kowalska fu la prima a celebrare individualmente questa festa con il permesso del confessore.
QUALI SONO LE ORIGINI DELLA FESTA?
Gesù, secondo le visioni avute da suor Faustina e annotate nel Diario, parlò per la prima volta del desiderio di istituire questa festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua volontà per quanto riguardava il quadro: “Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l’immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia”. Negli anni successivi Gesù è ritornato a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizioni definendo con precisione il giorno della festa nel calendario liturgico della Chiesa, la causa e lo scopo della sua istituzione, il modo di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate.
PERCHÉ È STATA SCELTA LA PRIMA DOMENICA DOPO PASQUA?
La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: “Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore“. Questo legame è sottolineato ulteriormente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo.
Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l’istituzione della festa: “Le anime periscono, nonostante la Mia dolorosa Passione (…). Se non adoreranno la Mia misericordia, periranno per sempre”.
La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, cominciando dal Venerdì Santo, della coroncina alla Divina Misericordia. Questa novena è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto a proposito di essa che “elargirà grazie di ogni genere”.
COME SI FESTEGGIA?
Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa Gesù ha espresso due desideri:
– che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubblicamente, cioè liturgicamente, venerato;
– che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina e in tal modo risveglino nei fedeli la fiducia. “Sì, – ha detto Gesù – la prima domenica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche l’azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa festa e col culto all’immagine che è stata dipinta”.
CHI ERA SUOR FAUSTINA KOWALSKA?
Nata in un villaggio polacco e battezzata col nome di Elena, è la terza dei 10 figli di Marianna e Stanislao Kowalski. Che sono contadini poveri, nella Polonia divisa tra gli imperi russo, tedesco e austriaco. Lei fa tre anni di scuola, poi va a servizio. Pensava di farsi suora già da piccola, ma realizza il progetto solo nell’agosto 1925: a Varsavia – ora capitale della Polonia indipendente – entra nella comunità della Vergine della Misericordia, prendendo i nomi di Maria Faustina. E fa la cuoca, la giardiniera, la portinaia, passando poi per varie case della Congregazione (tra cui, quelle di Varsavia, Vilnius e Cracovia). Ma al tempo stesso è destinataria di visioni e rivelazioni che i suoi confessori le suggeriscono di annotare in un diario (poi tradotto e pubblicato in molte lingue). E tuttavia non crede che questi fatti straordinari siano un marchio di santità. Lei scrive che alla perfezione si arriva attraverso l’unione intima dell’anima con Dio, non per mezzo di “grazie, rivelazioni, estasi”. Queste sono piuttosto veicoli dell’invito divino a lei, perché richiami l’attenzione su ciò che è stato già detto, ossia sui testi della Scrittura che parlano della misericordia divina e poi perché stimoli fra i credenti la fiducia nel Signore (espressa con la formula: “Gesù, confido in te”) e la volontà di farsi personalmente misericordiosi. Muore a 33 anni in Cracovia. Beatificata nel 1993, è proclamata santa nel 2000 da Giovanni Paolo II. Le reliquie si trovano a Cracovia-Lagiewniki, nel santuario della Divina Misericordia. La sua festa ricorre il 5 ottobre.
Fonte: Famiglia Cristiana del 02 Aprile 2016
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