Letture: Ger 20, 10-13; Rom 5, 12-15; Mt 10, 26-33
Commento esegetico-teologico
La liturgia della parola di questa domenica ha per tema centrale una virtù cristiana: la fortezza, dimostrata nel vivere la propria fede e nel manifestarla con una continua testimonianza. Nella preghiera colletta si chiede la grazia «di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il santo nome di Dio»: cioè per «Dio stesso». La Chiesa di Cristo è una Chiesa di martiri che sopportarono persecuzione e morte; e di testimoni, nel monachesimo o nelle missioni o nella vita quotidiana vissuta onestamente, poveramente, nell’amore e nel sacrificio. Come ci troviamo in questa Chiesa? Che cosa sopportiamo per la fede? Non sempre né tutti siamo chiamati a combattere, a predicare; ma certamente, sempre, a testimoniare.
Oggi la Parola di Dio ci invita a una riflessione, e forse rimprovera la nostra pigrizia, magari anche una nostra contro testimonianza! Accettiamo volentieri i criteri del mondo, potere e comodità; e pretendiamo di vivere con essi la fede, ricercando affermazione di noi stessi, del nostro gruppo, delle nostre idee. Potenza e non servizio; gloria e non ignominia, rifiutando la condizione della Croce. Un cristianesimo non spirituale, ma «carnale» direbbe Paolo. Si giunge talora a rifiutare le sofferenze per Cristo, fino a crederci da Lui abbandonati quando siamo nella persecuzione o nella derisione. È il ritorno ad una teologia contro la quale già scrive l’A. T. Rileggiamo allora la testimonianza di Geremia, perseguitato a morte dai suoi nemici. Egli non cede, pur soffrendo per quanto è avvenuto attorno a lui, abbandono degli amici, lotta dei nemici. Sente Dio al suo fianco fino alla morte. Dopo una vita di sofferenza, alla fine fu violentemente trascinato in esilio, e non sappiamo quale fu la sua sorte finale. Unico tratto che stona, in questo quadro, è l’invocazione di vendetta sui nemici; ricordiamo che siamo nell’A. T.; Geremia non aveva ancora udito il comando di Cristo: «amate i vostri nemici». Del resto sono forse parole paradossali, frutto di un animo esacerbato.
Anche il Salmo responsoriale è la preghiera di un orante dell’A. T. perseguitato persino dai familiari per il suo attaccamento alla casa del Signore, che lui trova in Dio il suo rifugio, e si sente esaudito.
La terza lettura è più esplicita ancora sull’argomento. È un brano del discorso cosiddetto «apostolico», nel quale Gesù descrive la situazione dei cristiani in quanto apostoli nel mondo. Devono testimoniare apertamente, sui tetti, la sua parola, senza timore neanche della morte. Nessuna persecuzione, nemmeno la morte, ci allontana dalla carità del Padre che «ha contato i nostri capelli», bella espressione che dice come il Signore Dio veglia amorevolmente su ciascuno di noi.
«Ogni uomo è oggetto di una tale sollecitudine da parte di Dio, che all’ultimo giorno confesserà che per lui non si sarebbe potuto fare niente di più di ciò che realmente è stato fatto» (Newman).
Ritornando nel mondo, nella vita quotidiana si è certo rinforzati nella fede; più pronti alla testimonianza; sicuri che Dio non ci abbandonerà.
Continua nella seconda lettura la «lectio cursiva» della lettera ai Romani, cioè la lettura capitolo per capitolo. Cristo è il nuovo Adamo, restauratore dell’ordine violato dal primo. A causa di Adamo, entrarono nel mondo il peccato e la morte, cui si aggiunsero le trasgressioni e i peccati degli uomini, da Adamo a Mosè, e da Mosè in poi, quando, conoscendo la Legge, il peccato diventò anche più grave. Ma la redenzione fu superiore a tutto, per la sovrabbondanza dei beni concessi. Il cristiano fa affidamento sulla grazia del Signore, come abbiamo detto nell’acclamazione: «Nel tuo grande amore rispondimi, o Dio».
Messaggio di questa Domenica
Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri.
Il mondo ha odiato Cristo e continua ad odiarlo nei suoi discepoli. Le ragioni del suo odio sono sempre le stesse, ragioni che il mondo tenta di nascondere dietro falsi pretesti: l’ordine religioso e civile, il bene comune. Ma la vera ragione è sempre un’altra: «a causa del nome di Gesù». L’annuncio del discepolo è un annuncio che inquieta il mondo. Il Cristo è venuto, senza tanti riguardi, a fare irruzione nella tranquillità del mondo. Il mondo ama solo ciò che è suo, ciò che non turba la sua pace e non smaschera le sue pretese. Il mondo odia i discepoli di Cristo, quelli veri, perché con la loro esistenza lo pongono in questione.
Il Vangelo di questa domenica, invita il discepolo ad avere coraggio. L’espressione «non temere» ricorre tre volte e scandisce tutta quanta la pericope. E vengono indicate alcune forme in cui il coraggio deve concretamente manifestarsi: il coraggio nella persecuzione, il coraggio di parlar chiaro, il coraggio di non aver mai vergogna di Cristo di fronte agli uomini. E alle forme di coraggio si aggiungono i motivi che devono sostenerlo: la certezza di essere nelle mani del Padre e, anche, la certezza che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vera vita. È un coraggio, come si vede, che nasce dalla fede e dalla libertà: la condizione è di amare Cristo al di sopra di ogni altra cosa. Solo così il discepolo è libero da se stesso, e non ha più nulla da difendere, quindi non è più ricattabile.
Insisto su un punto. La paura è un sentimento che ogni uomo prova. Generalmente la paura viene da pericoli esterni, dalla calunnia o dalla violenza, ma se può entrare nel cuore dell’uomo turbandolo è unicamente perché vi trova un punto di appoggio. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa ci importa più della causa di Gesù. E questo qualcosa può essere la vita, anche se, più spesso, si ha paura per molto meno. Ma ora che il Signore è risorto non c’è più ragione di avere alcuna paura. Persino la morte è vinta: di che cosa allora avere paura? Neppure della forza del peccato, che pure è profondo. Ce lo dice Paolo nella seconda lettura: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rom 5,15). Il peccato è grande e pervasivo, sembra dominare ogni cosa, ma la grazia di Dio è più forte dello stesso peccato.
Per la vita
“Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” Mt 10,32-33
È questa una Parola di grande conforto e di sprone per noi tutti cristiani.
Con essa Gesù ci esorta a vivere con coerenza la nostra fede in lui, poiché dall’atteggiamento che avremo assunto nei suoi confronti durante la nostra esistenza terrena, dipende il nostro eterno destino. Se lo avremo riconosciuto – Egli dice – davanti agli uomini, gli daremo motivo di riconoscerci davanti al Padre suo; se, al contrario, lo avremo rinnegato davanti agli uomini, ci rinnegherà anche lui davanti al Padre.
«Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Gesù richiama il premio o il castigo, che ci attendono dopo questa vita, perché ci ama. Egli sa, come dice un Padre della Chiesa, che a volte il timore di una punizione è più efficace di una bella promessa. Per questo alimenta in noi la speranza della felicità senza fine e nello stesso tempo, pur di salvarci, suscita in noi il timore della condanna.
Quel che gli interessa è che arriviamo a vivere per sempre con Dio. E’, del resto, l’unica cosa che conta; è il fine per cui siamo stati chiamati all’esistenza: solo con lui, infatti, raggiungeremo la completa realizzazione di noi stessi, l’appagamento pieno di tutte le nostre aspirazioni. Per questo Gesù ci esorta a “riconoscerlo” fin da quaggiù. Se invece in questa vita non vogliamo aver a che fare con lui, se ora lo rinneghiamo, quando dovremo passare all’altra vita, ci troveremo per sempre tagliati da lui.
Gesù, al termine del nostro cammino terreno, non farà altro dunque che confermare, davanti al Padre, la scelta operata da ciascuno sulla terra, con tutte le sue conseguenze. E, con il riferimento all’ultimo giudizio, Egli ci mostra tutta l’importanza e la serietà della decisione che noi prendiamo quaggiù: è in gioco, infatti, la nostra eternità.
«Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Come trarre profitto da questo avvertimento di Gesù? Come vivere questa sua Parola?
Lo dice lui stesso: «Chi mi riconoscerà…». Decidiamoci allora a riconoscerlo davanti agli uomini con semplicità e franchezza. Vinciamo il rispetto umano. Usciamo dalla mediocrità e dal compromesso, che svuotano di autenticità la nostra vita anche come cristiani.
Ricordiamo che siamo chiamati ad essere testimoni di Cristo: Egli vuole arrivare a tutti gli uomini col suo messaggio di pace, di giustizia, d’amore, proprio tramite noi.
Testimoniamolo dovunque ci troviamo per motivi di famiglia, di lavoro, di amicizia, di studio o per le varie circostanze della vita.
Diamo questa testimonianza anzitutto col nostro comportamento: con l’onestà della vita, con la purezza dei costumi, col distacco dal denaro, con la partecipazione alle gioie e sofferenze altrui.
Diamola in modo particolare con il nostro reciproco amore, la nostra unità, in modo che la pace e la gioia pura, promesse da Gesù a chi gli è unito, ci inondino l’animo fin da quaggiù e trabocchino sugli altri.
E a chiunque ci chiederà perché ci si comporta così, perché si è così sereni, pur in un mondo tanto travagliato, rispondiamo pure, con umiltà e sincerità, quelle parole che lo Spirito Santo ci suggerirà, dando così testimonianza a Cristo anche con la parola, anche sul piano delle idee.
Allora, forse, tanti di coloro che lo cercano, potranno trovarlo.
Altre volte potremo essere fraintesi, contraddetti, potremo diventare oggetto di derisione, magari di avversione e di persecuzione. Gesù ci ha avvertititi anche di questo: «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20.).
Siamo ancora sulla strada giusta. Proseguiamo perciò a testimoniarlo con coraggio anche in mezzo alle prove, anche a prezzo della vita. La mèta che ci attende lo merita: è il Cielo, dove Gesù, che amiamo, ci riconoscerà davanti al Padre suo per tutta l’eternità.
Chiara Lubich, Pubblicata in Città Nuova, 1984/12, pp. 10-11.
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