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Letture e Commento alla IV Domenica di Avvento – Anno A
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Letture e Commento alla IV Domenica di Avvento – Anno A

Commento esegetico-teologico

La situazione storica in cui è collocato l’oracolo di Isaia di questa IV Domenica di Avvento, è la guerra cosiddetta “siro-efraimita”: si tratta di una campagna contro il regno di Giuda mossa dagli alleati Pechak, re di Israele, e Rezin, re di Aram. Di fronte alla pericolosa minaccia del potente re assiro TiglatPileser III (Tukulti-apil-Esarra) i piccoli regni siro-palestinesi volevano organizzare una coalizione di opposizione antiassira, ma il re di Giuda si rifiutò di collaborare. Per rappresaglia, dunque, le forze congiunte di Damasco e di Samaria assalirono Gerusalemme e la cinsero d’assedio: secondo il preambolo storico di Is 7,1-2 questa impresa mirava ad abbattere la dinastia davidica e sostituire il re Acaz con un certo figlio di Tabeèl (Is 7,6), probabilmente un arameo della corte di Damasco.

La vicenda politica e militare mette in pericolo soprattutto la continuità della Casa di Davide: il Discendente di Davide, legittimo re secondo il divino oracolo di Natan, rischia di essere sostituito da uno straniero qualsiasi. I teologi di corte, difensori della regalità sacra, guardano con preoccupazione agli eventi e cercano di scoprire la volontà di Dio nei tempestosi frangenti di quell’anno 733 a.C.

Forse ad aggravare la situazione era venuto il fatto che il re Acaz aveva sacrificato, secondo la prassi religiosa cananea, suo figlio: in questo modo l’assenza di un erede poteva davvero offrire speranza di successo agli aggressori e ingenerare disperazione nei fedeli di Gerusalemme.

In questo frangente Isaia parla al re Acaz e gli si rivolge in quanto rappresentante della Casa di Davide, portatore della promessa fatta da Dio al primo re di Giuda: l’oracolo profetico mira, dunque, a confermare la fiducia nella divina protezione riservata alla discendenza davidica e si iscrive, quindi, perfettamente nell’ottica della teologia messianico-regale iniziata ai tempi dello Yahwista.

Tutto il testo è incentrato sull’immagine di un segno (‘“t) offerto da Dio per confermare la sua protezione su Gerusalemme e la dinastia davidica: l’interpretazione dell’oracolo, quindi, dipende dall’interpretazione del segno.

Acaz era re d’Israele e gli eserciti nemici minacciavano Gerusalemme. Dice Isaia: “Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento.” Sì, Il timore agita i cuori perché cresce attorno a noi un clima di ostilità e aggressività diffusa: la violenza esplode in modo incontrollato, ma anche i rapporti umani sembrano sempre più sfilacciarsi in un clima di sorda ostilità e antipatia. Basta a volte veramente poco, futili motivi, ad accendere la miccia che scatena correnti di odio. Viviamo in un mondo agitato, come foglie per il vento.

Di fronte a questa situazione il profeta Isaia invita Acaz a chiedere a Dio un segno che indichi la strada per uscire da questa situazione di paura: il Signore parlò ad Acaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, …». Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò». Il timore infatti consiglia di fidarci solo di noi stessi, di far conto sulle proprie forze, di chiuderci a riccio per difendersi meglio. “Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».”

Nonostante la sfiducia Dio manda un segno che è un segno di contraddizione, cioè esattamente il contrario di quello che ci aspetteremmo. Cosa può fare un bambino davanti all’esercito nemico? A cosa serve la debolezza per vincere le correnti di odio, l’ingenuità e la fragilità per fronteggiare l’arroganza violenta?

Il Vangelo odierno presenta Giuseppe che visse la stessa situazione. Trovandosi in un momento difficile, dopo la gravidanza anomala di Maria, cercava fra se e se la soluzione a questo suo dramma familiare. Quella con meno conseguenze, la più semplice per passare inosservati e non dovere subire le critiche o, peggio, la condanna sociale. Ma in fondo la scelta di Giuseppe, pur onesta e pacata, senza scandali e clamore, era quella, di nuovo, come per Acaz, di lasciar fuori Dio, di escluderlo dall’orizzonte della propria vita. E non è questa la tentazione che viviamo costantemente anche noi? Davanti alle difficoltà, ai pericoli, o semplicemente alle scelte importanti della vita, l’atteggiamento più normale e che ci viene istintivo, anche agendo onestamente, non è forse quello di mettere da parte Dio e cercare di prendere le nostre decisioni escludendo lui e i segni che può indicarci circa la via giusta da intraprendere?

Chiediamoci onestamente: quante volte ci è capitato di decidere qualcosa di importante fidandoci di ciò che Dio ci suggerisce?

Ma l’angelo torna e parla. È la Parola di Dio che viene anche da noi e ci suggerisce di non “non temere”, lo stesso incoraggiamento che aveva rivolto a Maria l’angelo Gabriele al momento dell’annuncio della sua gravidanza straordinaria: “Non temere” ed è lo stesso invito che gli angeli rivolgono ai pastori stupiti del coro notturno di angeli che li invitava ad andare verso la grotta di Betlemme: “Non abbiate timore!” Sì, il coraggio non ci viene se ci induriamo e ci facciamo forti contro le durezze della vita. L’agitazione del timore non lo vinciamo mettendoci al riparo dietro le corazze resistenti. La paura è dentro di noi, non la vinciamo difendendoci dall’esterno. Il coraggio viene dall’ascolto dell’angelo che ci dice: “Non temere!” non aver paura degli altri, come fossero pericolosi. Non aver paura dei poveri, degli immigrati, dei poveracci, come fossero una minaccia. Non aver paura di scoprirti con sentimenti di tenerezza, misericordia, pietà, come fosse una debolezza rischiosa. Il segno che l’angelo invita Giuseppe ad accogliere è infatti qualcosa di piccolo e delicato: “Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. È lo stesso segno inviato ad Acaz, impaurito dagli eserciti nemici, è lo stesso segno mandato a noi, spaventati e agitati da mille preoccupazioni. Facciamo spazio in noi al bambino che lo Spirito santo suscita. È il bambino della tenerezza per chi sta male, è il bambino che ha fiducia nel Padre buono che ci guida, è il bambino che è felice di stare con gli altri e non è diffidente e scontroso. Sì, lo Spirito vuole scendere su di noi e in questa ultima domenica di Avvento ci invita ad attendere il Natale tornando bambini, a rinascere dall’alto, come Gesù esorta Nicodemo a fare, a non far vincere un senso da adulto che la sa lunga e per questo è pessimista e disilluso e che crede impossibile ogni cambiamento e bolla le grandi visioni di pace e giustizia sul mondo come delle pericolose utopie da sfatare. Se faremo così incontreremo accanto a noi l’Emanuele, cioè che Dio sta con noi, è dalla nostra parte, ci guida e ci protegge. E questa è l’unica forza che ci mette al riparo da ogni paura e ci comunica il coraggio della fiducia in un futuro pieno di bene.

In questa domenica leggiamo l’inizio della lettera ai Romani di san Paolo apostolo. Il riferimento alla discendenza di Davide è il motivo per cui questo brano di Romani è stato scelto per questa IV domenica di Avvento, che insiste proprio su questa caratteristica di Gesù.

Come tutte le lettere anche questa si apre con l’indirizzo, contenente il mittente, il destinatario e i saluti iniziali. In questo caso però il mittente occupa quasi tutto lo spazio dell’indirizzo, mentre il resto è relegato all’ultimo versetto. Il motivo è presto detto. Paolo si rivolge probabilmente per la prima volta alla comunità di Roma, che aveva avuto origine già da diverso tempo in seno alla comunità ebraica dell’Urbe, già da prima dell’arrivo di san Pietro, e che ormai aveva già una certa importanza tra le comunità cristiane. Paolo riteneva ormai finito il suo compito nelle regioni di Oriente, in particolare nelle attuali Grecia e Turchia, e stava preparando un viaggio missionario nell’Ovest. In particolare voleva spingersi verso la Spagna e per questo motivo era necessario per lui crearsi degli appoggi a Roma. Ecco perché all’inizio della sua lettera egli si dilunga tanto sulla sua persona, offrendo le proprie credenziali.

In questa lettera Paolo è l’unico mittente, non cita altri collaboratori, come invece in altre lettere, ad es. 1 e 2 Corinti, in cui compare rispettivamente con Sostene e Timoteo. Il primo termine con cui si autodefinisce è “schiavo” di Cristo Gesù. Con ciò egli esprime una relazione di totale e incondizionata appartenenza. Questa parola traduce l’ebraico “ebed”, che era un termine onorifico utilizzato nell’AT per indicare coloro che Dio sceglieva e chiamava per un importante missione, per es. Mosè, Giosuè, Abramo, Davide, Isacco.

In secondo luogo Paolo è apostolo, nel senso più stretto del termine. Non si è offerto da sé a questo incarico, lo ha ricevuto per chiamata divina e per elezione (queste realtà egli le ricorda in altre lettere, soprattutto le due ai Corinti e quella ai Galati). Questa selezione che egli ha superato aveva uno scopo ben preciso: proclamare il lieto annuncio che Dio ha voluto rivolgere all’umanità.

A questo punto Paolo si sofferma su alcune precisazioni riguardanti il vangelo che è stato chiamato ad annunciare. Il Vangelo ha un lungo retroterra. Era stato promesso da Dio già attraverso i profeti dell’AT, i quali non solo avevano annunciato tali promesse, ma le avevano messe per scritto. Quindi la predicazione degli apostoli realizza le profezie dell’Antico Testamento: Dio ha mantenuto le sue promesse, e Paolo è partecipe di questa realizzazione.

Passa, poi, al contenuto di questo Vangelo. Riguarda il Figlio di Dio, una persona concreta che è entrata nella storia. Da un punto di vista umano egli è nato dal seme di Davide, cioè in una stirpe ben precisa, proprio la stirpe a cui era stato promesso. Paolo riprende qui un dato della tradizione cristiana più antica. Nei suoi scritti appare solo qui il riferimento a Davide. Egli pur essendo ebreo, si distacca alquanto dalle promesse messianiche.

Qui troviamo la seconda parte di ciò che caratterizza Gesù: secondo la carne – secondo lo Spirito. Gesù si caratterizza per aver assunto in sé due tempi, due origini e due diversi modi di essere. Prima della risurrezione egli è stato un discendente davidico e ha vissuto un’esistenza terrena, fragile e mortale. Con la risurrezione è stato costituito da Dio come suo figlio. Sullo sfondo si può intuire la scena dell’ascesa al trono e dell’incoronazione dell’erede del re. Si tratta di una confessione di fede ancora “primitiva”, che tiene conto solo della successione cronologica dell’esperienza di Gesù Cristo, uomo, risorto ed elevato al pari di Dio. Era ancora presto per parlare delle due nature di Cristo e la preesistenza era data per scontata.

Paolo dopo avere parlato del Vangelo che annuncia ritorna alla sua qualifica di apostolo. Egli ha ricevuto la missione apostolica da Cristo. Dio, per mezzo di Gesù Cristo ha donato a Paolo il carisma dell’apostolato. Quale è lo scopo di questa missione? Portare tutti all’obbedienza della fede. La fede cioè richiede un’adesione molto forte, che coinvolge il comportamento, lo stile di vita di tutta la persona. Il riferimento a “tutte le genti” è una giustificazione della lettera che manda ai Romani, una comunità che Paolo non ha fondato, ma in cui si sente autorizzato ad intervenire poiché è l’apostolo inviato ai pagani. E a Roma molti erano i cristiani che provenivano dal paganesimo.

Finalmente si giunge ai destinatari: i cristiani di Roma, che Dio ha amato e chiamato alla nuova vita, ad essere santi, cioè separati dagli altri per appartenere a Lui e partecipare alla Sua salvezza. Infine abbiamo il saluto consueto di Paolo. La formula sembra presa dalla liturgia e somiglia quasi a una benedizione. Grazia e pace coniugherebbero il saluto greco chaire: salve e quello ebraico, shalom: pace. Però questi due elementi sono già presenti nella benedizione di Numeri 6,25-26. La charis, grazia, ha un valore molto forte nel cristianesimo delle origini. È l’amore gratuito di Dio, conte del suo perdono e della sua salvezza. Il vocabolo pace attinge ricchezza dal vocabolario ebraico: è il complesso dei doni divini, soprattutto la salvezza dei tempi messianici, con in più il dono della riconciliazione degli uomini operata dal Padre in Gesù Cristo.

Con questo saluto dunque Paolo benedice la comunità ponendosi come mediatore del dono gratuito della salvezza.

Messaggio di questa Domenica

Siamo alla conclusione di queste domeniche d’Avvento … è domenica di annunzi: Isaia, nella prima lettura, annunzia la fedeltà di Dio all’infedele re Acaz che è tanto infedele da cercare la salvezza per sé, per la sua discendenza e per il popolo in alleanze con potenti lui che avrebbe dovuto fidarsi solo dell’Alleanza con il Signore; Isaia gli annunzia che nascerà un bambino, segno di questa fedeltà di Dio e, in questa nascita, chi vorrà potrà capire che Dio è fedele e compagno di viaggio nel cammino della storia, è Emmanuele, Dio-con-noi; nel passo del Vangelo il Signore, attraverso il suo angelo, annunzia a Giuseppe il suo ingresso nella storia degli uomini e gli chiede di riconoscere la sua vocazione unica e particolarissima: dare il nome al Figlio di Dio che sta per nascere, esserne padre in una compromettente concretezza; nel passo della sua Lettera ai cristiani di Roma Paolo annunzia a quella Chiesa che è in Roma che la sua identità profonda è quella di essere amata e luogo della Grazia che dona pace, è questo l’Evangelo che salva perché compie ogni promessa.

A noi questi testi della Scrittura mostrano un disegno preciso dinanzi al quale prendere posizione: siamo disposti ad accogliere il segno che ci viene dato in Gesù, l’Emmanuele? Gesù, infatti è l’unico segno che Dio ci dà (cfr Mt 12,38-40).

Acaz, nel passo di Isaia, non vuole smuoversi dalle sue vie e si nasconde dietro una falsa “pietas”: Non chiederò un segno al Signore, non voglio tentare il Signore. E’ un falso perché, pur ricevendo gratuitamente il segno rimarrà sulle sue strade di morte e porterà sciagure sul suo capo e sul popolo che avrebbe dovuto custodire; Giuseppe è invece un giusto, uno cioè che cerca la volontà di Dio e lotta perché essa si realizzi; nella Scrittura, infatti la “giustizia di Dio” è il suo progetto salvifico, è la sua volontà di salvezza, il “giusto” quindi è uno che obbedisce al Signore perché il suo progetto si compia. Giuseppe, a differenza del re Acaz, riceve l’annunzio dell’Emmanuele e lo accoglie lasciandosi sovvertire.

Giuseppe è chiamato da Dio a credere davvero l’incredibile, è chiamato da Dio ad essere “il terminale” delle grandi promesse della Prima Alleanza. Se ci pensiamo bene la genealogia di Gesù con cui Matteo ha aperto il suo Vangelo, in fondo è, secondo la carne, la genealogia di Giuseppe … il generare, infatti, si ferma a colui che fu padre di Giuseppe: Giacobbe generò Giuseppe lo sposo di Maria dalla quale nacque Gesù chiamato il Cristo. L’ultimo “generare” ha Giuseppe come oggetto mentre Giuseppe stesso non sarà mai soggetto generante. La genealogia è di Giuseppe ma passa ad essere di Gesù attraverso l’obbedienza di Giuseppe; così sarà adempimento delle promesse; e questo è straordinario!

La riflessione della Chiesa si è spesso soffermata sull’obbedienza di Maria che ha permesso al Verbo di mettere la sua tenda in mezzo a noi (cfrGv 1,14) ed è così … ma anche l’obbedienza di Giuseppe è stata luogo in cui Dio ha voluto ed ha dovuto passare per compiere il suo piano di salvezza. Se Maria ha accolto il Verbo e gli ha permesso di avere una carne, Giuseppe ha permesso a quella carne del Messia di essere luogo di tutte le promesse, dalla benedizione data ad Abramo, alla promessa fatta a Davide … Giuseppe, figlio di Abramo e figlio di Davide dicendo il suo “sì” ha donato a Gesù quella genealogia di salvezza, quel legame con la santa radice di Israele per cui la Chiesa potrà cantare: Tutte le promesse di Dio sono diventate “sì” in Gesù Cristo! (cfr 2Cor 1,20) Un “sì” che, oltre ad essere via all’adempimento delle promesse, oltre ad essere “via preparata al Signore”, come chiede Isaia, è via nella quale Giuseppe deve imparare un’obbedienza che è contraddizione delle proprie vie; Giuseppe dovrà avere il coraggio di “perdere la propria vita” … Colui che lo chiamerà teneramente abbà, Gesù, un giorno dirà che chi vuole essere suo discepolo deve negare se stesso, chi perderà la propria vita per me la salverà (cfr Lc 9, 23-24; Mt 10,39). Giuseppe è già “discepolo” del Figlio suo: perde la vita … sì, la perde perché rinunzia ai suoi progetti ed ai suoi sogni d’amore … vi rinunzia perché volta le spalle alla via che s’era tracciata da sé con la ragazza che amava. Pensando a questo dobbiamo toglierci dalla testa una volta e per sempre l’immagine di un Giuseppe vecchietto … no! Giuseppe è un ragazzo innamorato che permette a Dio di irrompere nella sua storia a costo di cambiargli i sogni. Da quest’ora il sogno di Giuseppe sarà il sogno di Dio … Giuseppe perde la sua vita perché rinunzia a generare e per un ebreo questo è qualcosa di immensamente doloroso e contraddittorio in quanto la benedizione data ad Abramo è benedizione nella generazione: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle. Tale sarà la tua discendenza dice il libro della Genesi 15,5 e non a caso segno dell’Alleanza con il suo popolo è la circoncisione.

Giuseppe offre suo figlio, quello che avrebbe potuto e voluto generare, per accogliere il Figlio di Dio, per chiamare Lui “figlio mio”, per essere per Lui padre … In questa offerta Giuseppe è davvero discendenza di Abramo, come Abramo offre il suo figlio!

In questa domenica comprendiamo che l’Avvento di Dio, come tutto il Vangelo, è dono gratuito ma è dono “costoso” perché l’accoglienza del dono comporta dei “sì” compromettenti e dei “no” che negano anche i nostri progetti, le nostre vie, le nostre indipendenze. Giuseppe fu trasformato da umile e meraviglioso ragazzo innamorato ad ultimo Patriarca della storia della salvezza, a padre messianico del Figlio di Dio.

Se Maria è Madre di Dio, e la Chiesa l’ha solennemente proclamato, perché ella fu madre nella carne del Figlio eterno di Dio, Giuseppe gli fu padre non nella carne ma in tutto il resto! Essendogli padre permise alla storia di spalancarsi all’adempimento delle promesse di Dio!

La paternità di Giuseppe fu vera e meravigliosa ma costò a Giuseppe se stesso!

La Grazia e la pace promesse sono giunte alla storia attraverso una via preparata da Maria che si è fatta spazio per l’Emmanuele, da Giuseppe che gli ha dato il nome che è salvezza per il mondo: Lo chiamerai Gesù, egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. Giuseppe ha dato al Figlio di Dio quel nome che pronunziamo con gioia, tenerezza e speranza fino all’ultimo istante di vita.

La Grazia e la pace, frutto dell’Incarnazione oggi ci sono annunziate per ricordarci che siamo santi per vocazione; chiamati alla santità in un’obbedienza che non si nasconde dietro le parole, Giuseppe non dice nessuna parola in tutto il Vangelo!, ma che accoglie la Parola e se ne fa custode.

Così possiamo essere pronti a celebrare il Natale del Signore!

Per la vita

Non giova nulla affermare che il nostro Signore è figlio della beata Vergine Maria, uomo vero e perfetto, se non lo si crede uomo di quella stirpe di cui si parla nel Vangelo. Scrive Matteo:

« Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1). Segue l’ordine della discendenza umana con tutte le generazioni fino a Giuseppe, al quale era sposata la Madre del Signore. Luca invece, percorrendo a ritroso la successione delle generazioni, risale al capo stesso del genere umano per dimostrare che il primo Adamo e l’ultimo sono della stessa natura.

Certo l’onnipotenza del Figlio di Dio, per istruire e giustificare gli uomini, avrebbe potuto manifestarsi come già si era manifestata ai patriarchi e ai profeti, sotto l’aspetto di uomo, come quando affrontò la lotta con Giacobbe o dialogò o accettò l’accoglienza di ospite o mangiò persino il cibo imbanditogli. Ma quelle immagini erano soltanto segni di questo uomo che, come preannunziavano i mistici segni, avrebbe assunto vera natura dalla stirpe dei patriarchi che lo avevano preceduto.

Nessuna figura poteva realizzare il sacramento della nostra riconciliazione, preparato da tutta l’eternità, perché lo Spirito santo non era ancora disceso sulla Vergine, né la potenza dell’Altissimo l’aveva ancora ricoperta della sua ombra. La Sapienza non si era ancora edificata la sua casa nel seno immacolato di Maria. Il Verbo non si era ancora fatto carne. Il Creatore dei tempi non era ancora nato nel tempo, unendo in sé in una sola persona la natura di Dio e la natura del servo. Colui per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, doveva egli stesso essere generato fra tutte le altre creature.
Se infatti questo uomo nuovo, fatto a somiglianza della carne del peccato (cfr. Rm 8, 3), non avesse assunto il nostro uomo vecchio, ed egli, che è consostanziale con il Padre, non si fosse degnato di essere consostanziale anche con la Madre e se egli, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui, se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura.
In seguito a questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi, il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito da cui fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale. Per questo l’evangelista dice dei credenti. «Non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1, 13).

          Dalle «Lettere» di san Leone Magno, papa  (Lett. 31, 2-3; Pl 54, 791-793)

16 Dicembre 2016

About Author

Gianni De Luca Nasce in Abruzzo, a Tagliacozzo in provincia dell'Aquila. Dopo avere conseguito il diploma di ragioniere e perito commerciale, si trasferisce a Roma, dove, attualmente, vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio lavora due anni in Revisione e Certificazione dei bilanci prima di iniziare a collaborare con uno Studio associato di Dottori Commercialisti della Capitale. Decide, ad un certo punto, di seguire la nuova via che gli si è aperta e, così, consegue prima il Magistero in Scienze Religiose presso l'Istituto Mater Ecclesiae e, poi, la Licenza in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino in Urbe "Angelicum". Attualmente lavora come Insegnante di Religione cattolica negli Istituti di Istruzione superiore di Roma. Appassionato di Sacra Scrittura, tiene conferenze, anima da circa 20 anni un incontro biblico, presso l'Istituto M. Zileri delle Orsoline Missionarie del Sacro Cuore in Roma, e da circa 10 la Lectio divina sulle letture della Domenica presso la Basilica parrocchiale di Sant'Andrea delle Fratte. Animatore del gruppo di preghiera "I 5 Sassi", è organizzatore di pellegrinaggi e ritiri spirituali.


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