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Letture e Commento alla II Domenica di Avvento – Anno A
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Letture e Commento alla II Domenica di Avvento – Anno A

Commento esegetico-teologico

Nel brano odierno, che costituisce la prima Lettura, il Profeta Isaia ci presenta l’immagine di un nuovo germoglio che spunta su un tronco ridotto ormai ad essere privo di rami e di foglie, privo di vita. L’immagine acquista tutta la sua forza se si tiene presente quanto egli ci dice immediatamente prima, al capitolo 10, 33-34, dove ha tracciato l’itinerario di una invasione dal nord del paese da parte del nemico di Israele, al cui passaggio, violento più che mai, tutto viene distrutto. Anche delle foreste lussureggianti resta ormai soltanto qualche tronco tagliato.

In questo panorama di morte e devastazione, ecco un virgulto su un ceppo, segno della vita che riprende e del rivelarsi della fedeltà di Dio alle sue promesse.

Grazie a queste promesse, dice Isaia, su Israele continuerà a regnare la dinastia di Davide, segnata da molte prove e infedeltà nei confronti di Dio.

Il Profeta sogna ed annunzia un re giusto che si ponga con tutto se stesso interamente al servizio di Dio, faccia progetti saggi ed abbia la forza necessaria per attuarli.

Il fatto che si tratti di un germoglio deve ricordare che il personaggio annunziato da Isaia non ha la potenza militare e politica di Davide, ma su esso scenderà la benedizione divina, l’elezione da parte di Dio.

Dio vuole ripartire da capo.

Il Nuovo Testamento ci insegna che egli ricomincia dal bambino di Betlemme e dal carpentiere di Nazaret.

Chi poteva pensare che il Signore Dio sarebbe ripartito cosi?

Nel corso della lettura, poi, si descrive quello che è l’equipaggiamento del germoglio di Iesse affermando che egli sarà stabilmente dotato dello Spirito del Signore con quelli che sono i suoi doni: sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, timore di Dio.

Il dono dello Spirito non sarà più provvisorio, come avveniva per esempio per i giudici, non sarà più donato all’occasione come avveniva per i capi carismatici di Israele, bensì lo Spirito sarà sempre, permanente su Colui che Dio ha scelto. Ripieno di Spirito, egli opererà per la giustizia e per i poveri, aprendo così il mondo alla speranza di un rinnovato paradiso terrestre, senza violenza e sopraffazioni.

Quanto il Profeta annuncia, però, è un qualcosa che non ci appartiene, ma è qualcosa che dobbiamo ottenere come dono e costruire con l’aiuto di Dio. Questo vuol dire che l’armonia tra gli uomini, la pace messianica non è solo assenza di guerra, ma è la realizzazione piena dell’essere umano. Non è un frutto nostro, ma è un dono divino.

La visione della Bibbia, che ha una visione messianica della storia, vede il Paradiso al futuro, come un dono di Dio che si instaurerà all’interno della storia, un dono che si affermerà con estrema fatica perché l’uomo oppone continuamente il suo orgoglio, la sua violenza, la sua superbia, il suo peccato.

Nel testo passano davanti a noi quattro coppie di animali in antitesi tra loro: lupo e agnello, pantera e capretto, vitello e leoncello, vacca e orsa. E, poi ancora, il lattante e l’aspide, il bambino e il serpente. Ma su tutto, ormai, si stende l’armonia, il bambino sta ad indicare, infatti, che la pace sarà un dono destinato alle generazioni successive, non solo per una epoca, e ci ricorda sempre che stiamo aspettando l’Emmanuele, per noi il, Cristo Gesù.

Ma, in particolare, questo bambino è carico di risonanze simboliche e teologiche. Il bambino che sta giocando è in pace con il serpente: è una allusione finissima al testo paradisiaco del libro della Genesi, dove la donna e l’uomo, invece, si lasciano incantare dal serpente, ci giocano, ma il serpente si rivela velenoso e li colpisce fino in profondità. Ora, invece, con il dono di Dio, con il Messia, anche il serpente torna ad essere una parte del paesaggio così come lo vede Dio, un animale che gioca con il bambino.

La scena finale comprende un mare che si distende, ma non è il mare distruttore, è, invece l’oceano della sapienza di Dio. Alla base della creazione c’è un sogno di amore, quello di Dio.

Il vertice della profezia di oggi è, infatti, la promessa di una effusione del dono della sapienza sul mondo intero: il paradiso può realizzarsi davvero ed è, anzi, già anticipato su questa terra se e quando la conoscenza del Signore riempie il paese, poiché nel momento stesso in cui l’umanità conosce veramente Dio, per quello che è, la terra cambia volto.

Il Vangelo odierno riporta la predicazione di Giovanni Battista, con il suo forte invito alla conversione ed alla penitenza, è per tutti e quattro gli evangelisti, ciò che introduce la predicazione di Gesù e, cioè, la nuova tappa della rivelazione divina, quella definitiva.

Secondo quello che ci dice oggi Matteo, il Battista non lancia però solo un invito alla conversione, ma proclama prima quell’evento che rende possibile la conversione stessa: “Il regno dei cieli è vicino”.

Perché possa crearsi quel grande movimento di popolo che esce dalle case per andare al Giordano a confessare i propri peccati, è necessario che ci sia alla base la certezza incrollabile che Dio vuole regnare, che egli, cioè, sta realmente operando in questo mondo e vuole riempire l’esistenza delle persone, tagliando alla radice tutti i mali dell’uomo: il peccato, le inimicizie, gli egoismi. I sentieri possono ora essere raddrizzati perché Dio lo vuole e lo rende possibile.

Il battesimo per immersione nel Giordano appare come il segno visibile della volontà sincera di accogliere questa vicinanza di Dio. Ecco allora la necessità di evitare ogni ipocrisia. Matteo introduce nella scena farisei e sadducei, i quali chiedono il battesimo senza avere le disposizioni adatte. Razza di vipere! Il Battista non chiede come condizione quella di essere giusti, altrimenti non avrebbe senso la sua intera predicazione, ma chiede che, di fronte a Dio, non ci sia ipocrisia o tentativo di inganno, perché con Dio non si può barare.

Tuttavia il Battista è anche consapevole della propria insufficienza: le sue sono parole autentiche ed infuocate, ma, a nulla servirebbero se non venisse un Altro, il quale potrà davvero battezzare in Spirito Santo.

“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea…..”

Giovanni Battista: è l’ultimo dei profeti, l’Elia che deve tornare per chiamare alla conversione prima della venuta del Signore, come annunciato dal profeta Malachia in 3,23. Solo passando per l’acqua, per il caos primordiale, il diluvio e la morte dove ci ha condotto la disobbedienza ed il peccato, riceveremo il fuoco dello Spirito, la vita nuova, quella dei figli.

Giovanni prepara ad accogliere il Signore che viene. I profeti in Israele mantengono viva la promessa; non solo richiamano all’obbedienza, ma impediscono che la religione si riduca ad essere senza cuore, senza anima, senza passione. Per questo invitano a guardare in alto, a levare lo sguardo dalle cose di questa terra per guardare le mani ed il volto di chi le dona. Il profeta invita a stabilire una comunione con colui che nella sua Parola comunica se stesso.

Giovanni è il profeta che sta sulla soglia tra il passato ed il futuro.

Per lui la promessa non è la tomba, ma il grembo della novità. È una Icona dell’Antica Alleanza che trova il suo compimento, è l’Elia che deve venire, che anzi è già venuto, anche se non viene riconosciuto, anticipando, così anche il destino di Colui che vuole far riconoscere. Giovanni Battista è il punto di arrivo della paziente fatica di Dio durata millenni, e rappresenta l’uomo pronto ad accogliere il Signore. Attenti quindi: non è solo l’asceta o il mistico che incontra Dio nella solitudine del deserto: è l’apostolo, che vuole aiutare ad aprirsi tutti per poter accogliere Colui che viene ed attende solo di essere accolto.

Precedendo cronologicamente il Signore di un passo, sei mesi, spiritualmente lo segue.

Lui è la voce che lo proclama, il Signore è la sua Parola. Non può esserci l’uno senza l’altro: senza voce la Parola non può esprimersi, senza Parola la voce è un semplice suono senza significato.

La figura del Battista suscitò molta impressione. Qualcuno lo riteneva addirittura il Messia. Egli come Elia, è l’uomo che sta dinanzi a Dio, pronto all’incontro. Come tutti i profeti prima di lui, denuncia il peccato ed annuncia il perdono. Ma rispetto a loro ha una coscienza nuova. Sa che arriva Colui che ha promesso. Questi ci battezzerà invece che nell’acqua della morte, nel fuoco del suo Spirito.

Il nome Giovanni significa grazia-di-Dio; Battista, invece, diventato quasi il suo cognome, significa battezzatore e la sua missione è stata quella di immergere l’uomo nella sua verità, perché possa aprirsi alla verità di Dio, l’unica che lo salva.

Quale è stato il cuore del suo messaggio? La conversione.

Dio salva! Bisogna, dunque, con-vertirsi a Lui e non per-vertirsi in altre direzioni. L’uomo, che fin dal principio fugge da Dio, è chiamato ad invertire il suo cammino, il suo modo di pensare e di agire. La conversione più difficile è proprio quella religiosa: cambiare il modo di pensare Dio e di rapportarsi a Lui, volgersi dalle nostre idee su di Lui a Lui per quello che è veramente. La conversione è mettere al centro Dio e non il proprio io o le proprie immagini di Dio. Convertirsi è ristabilire l’ordine della creazione, così come Dio lo aveva pensato e lo vuole.

Giovanni, poi, ci dice pure perché dobbiamo convertirci, lo dobbiamo fare perché il Regno di Dio, cioè Dio stesso, è in mezzo a noi, sta tra di noi liberandoci da ogni schiavitù, rendendoci liberi, rendendoci sua immagine e somiglianza pienamente realizzate.

Dio, che sta in mezzo a noi finalmente, vuole comunicarci la sua vita, vuole farci suoi figli, vuole aiutarci a vivere la nostra vita in modo che sia pienamente realizzata.

Le ultime parole di Giovanni nel Vangelo, poi, fanno risaltare la sua stupefacente umiltà dalla quale abbiamo tutti da imparare: “Egli deve crescere e io, invece, diminuire”.

Le parole odierne di San Paolo sono all’insegna di un tema molto importante: l’accoglienza e l’accettazione reciproca, invitandoci ad avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti che animavano il Signore Gesù, che testimoniano così una vera conversione al messaggio di Cristo. Sono parole che, quando furono scritte erano rivolte ai cristiani di origine pagana per insegnare loro la reciproca accettazione ed accoglienza con quelli provenienti dal giudaismo.

Sta parlando ad una comunità, in cui convivevano forti e deboli nella fede ammonendo che, tutto quanto il cristiano fa, deve essere improntato alla accoglienza e alla edificazione reciproca.

A me, personalmente, quindi, sembra un tema estremamente attuale, perché nell’era della nuova evangelizzazione, siamo chiamati ad accoglierci nella diversità, avendo tanta pazienza, misericordia, come ci chiede Papa Francesco, proprio come fece il Signore Gesù, nei suoi giorni terreni, nella sua vita in mezzo a noi.

Paolo, dunque, suggerisce, di impegnarci nell’incrementare l’amore reciproco, lo stare insieme e suggerendolo lo fa per tre motivi:

  1. La Parola delle antiche Scritture.

Dice Paolo che è la Parola di Dio che nutre la nostra vita, è la Parola di Dio che sostiene la vita del vero credente, donandole solidità e rendendo possibile la perseveranza nella fede ed una vita improntata dalla speranza. Proprio chi è saldo nella fede in Dio ed è incrollabile nella speranza sa anche accettare i propri limiti ed anche quelli degli altri, lavorandoci sopra con la pazienza.

  1. In secondo luogo, bisogna sempre tenere presente l’esempio di Gesù Cristo.

Il principio ispiratore della sua vita non è stato il suo personale piacere, ma fedele alla sua missione di rivelare il volto e l’amore di Dio Padre, non si è sottratto ad essa quando si è trattato di sopportare le reazioni violente degli uomini che lo hanno crocifisso. Gesù Cristo non ha vissuto cercando di piacere a se stesso, ma è vissuto in mezzo a noi come colui che serve.

  1. Come ultima ragione non si deve dimenticare che i pagani sono stati accolti da Cristo stesso.

Ebreo, figlio del suo popolo, egli è stato il segno vivente della fedeltà di Dio alle sue promesse, ma insieme ha manifestato la misericordia di Dio anche ai non ebrei perché tutti potessero unirsi nella sua lode al Padre che sta nel cielo e che è Padre di tutti. Anche noi, dunque, dobbiamo manifestare l’accoglienza e la misericordia verso gli altri, verso i lontani, verso quelli che, ancora, non conoscono l’amore di Dio.

Messaggio di questa domenica

La predicazione del Battista: convertirsi è cambiare mente e vita.

Già domenica scorsa la Scrittura ci parlava della necessità di aspettare la venuta del Signore. “Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore verrà”, ci ammoniva il Vangelo di Matteo, ma che cosa dobbiamo attendere? Nell’incertezza del tempo odierno le novità ci spaventano, perché sono fonte di inquietudine e di incertezza. E poi cosa possiamo attenderci dagli altri? La nostra esperienza ci insegna che ciò che di buono posso sperare dal mio futuro posso solo ottenerlo con la mia fatica, a costo di sacrifici e di rinunce, facendomi strada da me stesso.

Nessuno oggi regala niente.

Questi ed altri analoghi pensieri ci portano a sentire come fuori luogo ed inattuale questo tempo di Avvento. Il mondo di oggi è imbevuto di una cultura che propone di vivere la soddisfazione del presente, senza farsi troppe illusioni sul futuro; di dare valore solo a ciò che vedo e tocco, il resto è un lusso a cui la crisi e l’insicurezza che si vivono non permettono di dare importanza.

Eppure anche quest’anno la Scrittura ci propone di uscire dalla cultura del nostro tempo e di vivere l’attesa della realizzazione di un mondo nuovo. Sì, ogni anno l’Avvento contraddice la chiusura dei cieli e la miopia dello sguardo per invitarci ancora una volta a sollevare lo sguardo sull’orizzonte largo del sogno di un mondo nuovo che deve realizzarsi.

Il profeta Isaia ci descrive la visione di questo mondo nuovo: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte.” È il sogno ad occhi aperti del profeta, ma è anche il sogno di tutti coloro che non accettano come normale che il forte prevalga e il debole soccomba, che la legge apparentemente normale della forza si imponga su tutti, che l’uno sia contro l’altro. È il sogno dei popoli che sono schiacciati dalla guerra, dei poveri oppressi, delle vittime dell’ingiustizia. Ma è anche il sogno di quanti si fanno partecipi della loro invocazione e sposano quel sogno, aspettandone con ansia la realizzazione promessa dal profeta. Quando tutto ciò si avvererà?

Quanto è difficile fare nostro quel sogno. Ci sembra così lontano dalla realtà, perché illudersi? E poi è pericoloso un mondo così diverso da quello di sempre, meglio accontentarsi di stare un po’ meglio, senza grandi cambiamenti.

Ma in questo Avvento risuona un grido forte: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” Giovanni nel deserto di speranze per il futuro e di visioni di un mondo nuovo alza la voce e invita a cambiare mentalità e a fare nostra la visione profetica, perché la realizzazione finalmente appare a portata di mano. Egli viene per far entrare nella vita degli uomini colui che può realizzare quel sogno, il Signore Gesù. Sì, Giovanni sa che le vie degli uomini sono tortuose, come i suoi pensieri; che si avvitano su se stessi, girando solo attorno alle proprie insoddisfazioni e paure, senza mai uscire da sé. Per questo invita a raddrizzare le proprie vie per incamminarci verso gli altri e verso Dio.
La gente è attratta da Giovanni e viene da lui sul Giordano perché le sue parole sono piene di futuro e aprono alla speranza. Sì, in questo mondo in cui siamo abituati a non sperare più un futuro diverso, accontentandoci di un po’ di soddisfazioni effimere, lasciamoci attrarre anche noi dal sogno di Isaia e dalla visione di Giovanni. La loro grandezza sta proprio in questo saper alzare lo sguardo e non restare disorientati e soffocati nella nebbia inquinata che copre il mondo giù in basso. C’è un orizzonte alto possibile, c’è una prospettiva diversa di giustizia e di gioia che possiamo veder realizzata, se sappiamo, come Giovanni e Isaia, innalzarci all’altezza dello Spirito e lavorare fattivamente per la sua realizzazione. Non basta infatti chinare il capo e vivere con scontatezza questo tempo di Avvento, così come i sadducei e i farisei si sottomettono al battesimo di Giovanni, ma senza vivere la conversione dal loro modo di essere. Il Battista smaschera la falsità di un atteggiamento fintamente religioso, ma che rifiuta la novità del Vangelo e l’altezza della sua visione: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Quei pii ebrei si recano da Giovanni, ma con sufficienza e scontatezza, perché già sanno cosa aspettarsi e come comportarsi. Giovanni a questo loro atteggiamento contrappone l’esigenza di portare frutti di conversione, cioè di dimostrare con le proprie opere e vita l’intenzione di trovare una strada nuova, di indirizzarsi verso un nuovo destino. Lo stesso atteggiamento si ripete stancamente in ogni epoca. Anche noi e tanti nella nostra città accolgono il Natale, ma lo svuotano del suo significato vero rendendolo nient’altro che un coacervo di tradizioni da tramandare e ripetere senza cambiamenti, dalle ricette di cucina, agli addobbi, alle abitudini festaiole. Ma questo è uccidere la forza di novità del Natale e rendere inutile ogni attesa, perché tutto si ripete sempre uguale.

Accogliamo, dunque, con docilità l’invito che ci proviene da questa seconda tappa di Avvento, perché ci prepariamo in questo tempo alla venuta del Signore. Usciamo dalle vie contorte e dallo sguardo basso chino su di sé, per imparare ad attendere il mondo nuovo di giustizia e di pace che il Signore è venuto per realizzare. Solo così anche noi ne entreremo a far parte.

Per la vita

“Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù”.

Benedetto XVI: Udienza Generale, 17.02.2010

2 Dicembre 2016

About Author

Gianni De Luca Nasce in Abruzzo, a Tagliacozzo in provincia dell'Aquila. Dopo avere conseguito il diploma di ragioniere e perito commerciale, si trasferisce a Roma, dove, attualmente, vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio lavora due anni in Revisione e Certificazione dei bilanci prima di iniziare a collaborare con uno Studio associato di Dottori Commercialisti della Capitale. Decide, ad un certo punto, di seguire la nuova via che gli si è aperta e, così, consegue prima il Magistero in Scienze Religiose presso l'Istituto Mater Ecclesiae e, poi, la Licenza in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino in Urbe "Angelicum". Attualmente lavora come Insegnante di Religione cattolica negli Istituti di Istruzione superiore di Roma. Appassionato di Sacra Scrittura, tiene conferenze, anima da circa 20 anni un incontro biblico, presso l'Istituto M. Zileri delle Orsoline Missionarie del Sacro Cuore in Roma, e da circa 10 la Lectio divina sulle letture della Domenica presso la Basilica parrocchiale di Sant'Andrea delle Fratte. Animatore del gruppo di preghiera "I 5 Sassi", è organizzatore di pellegrinaggi e ritiri spirituali.


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