Dopo il rito penitenziale, cantiamo l’inno del Gloria, almeno nelle domeniche e nei giorni di festa. Vediamo qual è l’origine di questo inno e approfondiamo il contenuto.
Cantare la gloria di Dio
Si tratta di un inno, di un canto di lode, scritto originariamente in greco e la cui traduzione latina comincia con la parola gloria. Noi cantiamo “gloria” di Dio, cioè il suo splendore, la sua bontà, la sua maestà. Il Gloria comporta un aspetto solenne: non lo si canta se non nelle domeniche, nelle solennità e nelle feste. Ce ne asteniamo però nelle domeniche dell’Avvento e della Quaresima. Perché? Per vivere un tempo di “privazione” che ci permetterà di far vibrare con maggior solennità l’acclamazione degli angeli nella notte di Natale e la proclamazione della salvezza durante la veglia pasquale.
Il canto degli angeli
Questo canto di lode riprende parecchi testi delle Scritture, ma in maniera particolare, la lode intonata dagli angeli nella notte di Natale. “E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc2,13-14).
All’inizio della celebrazione, acclamiamo a nostra volta questa nascita che è all’origine della nostra salvezza. E soprattutto ci uniamo al canto degli angeli come quando canteremo l’Alleluia o il Sanctus. Non è cosa da poco cantare con gli angeli! È bene che ci ricordiamo che tutta la nostra liturgia terrena si vuole a immaginare della liturgia celeste degli angeli che cantano senza sosta la gloria di Dio. Quando noi celebriamo ci uniamo alla lode degli angeli!
Un inno antichissimo
Questo inno antichissimo risale al terzo secolo, era in origine una preghiera del mattino, una preghiera di lode all’inizio di un nuovo giorno. A poco a poco è stato introdotto nella liturgia eucaristica. All’inizio, soltanto il vescovo lo diceva e solamente in alcuni giorni a cominciare da Natale. Il suo uso si è esteso ad altre circostanze e si è generalizzato. È notevole che questo inno si sia così radicato nella liturgia, senza interruzione nel corso dei secoli e senza passare di moda.
Come cantare il gloria?
Conviene cantarlo perché il gloria non è stato composto per essere letto…. È lì che incominciano le difficoltà. Il celebrante spesso molto imbarazzato davanti a fedeli che egli teme non sappiano cantarlo nella sua interezza. Allora, per non recitarlo in modo piatto, se ne fa un canto con un ritornello e delle strofe….! I liturgisti insistono perché possiamo imparare a cantarlo interamente, al fine di rispettare lo stile e la natura di questo inno.
Un inno trinitario
Questo inno si rivolge al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo (anche se lo Spirito Santo è appena menzionato alla fine dell’inno). Possiamo distinguere quattro parti:
- L’introduzione col canto degli angeli.
- Le lodi al Padre.
- Le lodi e le domande al Figlio
- La conclusione trinitaria.
Il canto degli angeli
“Gloria a Dio”: gli angeli cantano la gloria di Dio, cioè riconoscono che egli è Dio e che è la fonte di ogni santità. “Nell’alto dei cieli” traduce il latino in Excelsis. Il Gloria ci fa accedere ad una realtà molto elevata, ben aldilà delle contingenze materiali, la pesantezza delle quali ci trascina sempre più in basso. Più ancora siamo associati alla preghiera di coloro che sono “nei cieli”; il cielo e la terra si mescolano nella lode.
“E pace in terra”: la pace è ciò di cui l’uomo ha bisogno, ed è precisamente ciò che il re del cielo vuole per l’uomo. Il Cristo è “Il principe della pace” che permette questa riconciliazione tra Dio e l’uomo che il peccato aveva resa necessaria. La pace è un dono di Dio che non si impone, ma che chiede di essere ricevuto e di crescere nel cuore dell’uomo.
“Agli uomini che egli ama”: qui la traduzione si allontana dal latino pax hominibus bonae voluntatis, “pace agli uomini di buona volontà”. In realtà la pace di Dio annunciata dagli angeli la notte di Natale è per tutti gli uomini. Il Gloria è una confessione dell’amore di Dio per tutta l’umanità.
Le lodi al Padre
Segue come un’”irruzione” delle lodi rivolte al padre: “Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”. Quasi tutto il vocabolario della lode vi ricorre. L’uso del noi ne fa una preghiera comunitaria. Attenzione a non dire questi verbi troppo velocemente: essi hanno ciascuno il loro significato e la loro portata.
“Noi ti lodiamo”: colui che ha compreso chi è Dio diventa un essere di lode. Vuole celebrare il suo Dio, festeggiarlo, danzare per lui, lodarlo senza sosta. Noi siamo fatti per la lode, per lodare Dio come respiriamo.
“Ti benediciamo”: la benedizione che rivolgiamo a Dio non è possibile se non perché Dio stesso benedice noi. Egli è la fonte di ogni benedizione. Benedetti da Dio, gli uomini alzano a loro volta le mani per intonare un canto di benedizione.
“Ti adoriamo”: l’adorazione è l’atteggiamento per eccellenza dell’uomo verso il suo creatore, è un atto di riconoscenza e di amore, il contrario dell’idolatria.
“Ti glorifichiamo”: glorificare Dio è riconoscere che egli è Dio. Così l’uomo si mette al suo giusto posto, riflettendo questa gloria che viene da Dio. Nel vangelo, a contatto con il divino, gli uomini glorificano Dio.
“Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”: l’evocazione della gloria di Dio suscita l’azione di grazie. Noi ringraziamo Dio per tutto ciò che egli è e per tutto ciò che egli fa. Questo grazie è l’atteggiamento umile di colui che non pensa che tutto gli è dovuto. Noi ci uniamo al Cristo che rende grazie al Padre suo. Il Gloria è già prefigurazione della lode della preghiera eucaristica.
Poi, nominiamo colui che acclamiamo con queste tre denominazioni: “Signore Dio, re del cielo, Dio padre onnipotente”. “Signore Dio” sarà ripreso per il Figlio, perché essi condividono la medesima gloria. È una affermazione di fede, sulla scorta di san Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).
“Re del cielo”: Dio è il re di tutte le realtà invisibili che lo adorano, mentre sulla terra noi chiediamo che il suo regno venga e cresca.
“Dio Padre onnipotente”: noi proclamiamo il nome intimo di Dio che è Padre “papà”. Nello stesso tempo egli è l’”onnipotente”, non di una potenza schiacciante alla maniera del mondo, ma di una potenza paterna che veglia su di noi e ci fa crescere.
Le lodi e la domanda al Figlio
Ci rivogliamo quindi al Figlio, cominciando ugualmente con una serie di invocazioni: “Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo; Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre”.
“Figlio unigenito” non è da intendere nel senso di figlio unico.
Il Cristo è il Verbo, realtà unica per la quale tutto è stato creato. Noi non abbiamo un altro Cristo. “Gesù Cristo”: diciamo il suo nome, il nome che salva, nome doppio che proclama che Gesù è il Cristo, il messia.
“Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre”: egli condivide la medesima divinità di Dio, essendone il figlio. Egli è l’agnello di Dio in riferimento agli scritti dell’Antico Testamento, l’Agnello immolato che prende su di se tutte le colpe. Egli è anche l’Agnello vittorioso, di cui parla l’Apocalisse, il quale siede sul trono e purifica gli eletti col suo sangue.
Avendo proclamato che il Cristo è colui che “toglie il peccato del mondo” e che è “assiso alla destra del Padre”, riconosciamo di avere bisogno di lui e formuliamo delle preghiere molto semplici: “abbi pietà di noi” e “accogli la nostra supplica”.
Niente a che vedere con la “pietà” condiscendente… Noi riprendiamo la preghiera del pubblicano “Signore, abbi pietà di me peccatore” che Gesù dà come esempio. E gli chiediamo di “accogliere la nostra supplica”, ciò che ci sta a cuore.
La conclusione trinitaria
L’inno prosegue con la lode al Cristo: “perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’altissimo, Gesù Cristo”. Riconosciamo che Gesù condivide la divinità e la santità di Dio che canteremo nel corso della messa con il Sanctus.
Terminiamo questo inno collegando il Cristo allo spirito santo e al Padre proclamando: “con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen”. È dunque tutta la Trinità che noi lodiamo e glorifichiamo.
Perché cantare così la gloria di Dio?
È vero che ciò non aggiungerà nulla alla grandezza di Dio. Ed egli non ha “bisogno” che noi cantiamo le sue lodi. Ma Dio sa bene che la grandezza dell’uomo consiste precisamente nell’acclamare la grandezza di Dio, nell’aprirsi all’irraggiamento di questa gloria. Così, è importante che il Gloria sia un canto gioioso, un inno pieno di vivacità che mette il nostro cuore in festa e dà il tono a tutta la messa. Perché la messa non deve essere una celebrazione triste. Essa è un’azione fondamentalmente gioiosa: si viene a messa per rendere grazie a Dio, per lodarlo, cantarlo, glorificarlo, ringraziarlo, acclamarlo, celebrarlo. È ciò che fa il gloria a Dio, fin dall’inizio della messa. Ed è ciò che farà, in modo più esplicito ancora la grande preghiera eucaristica.
Ricapitolando:
Il gloria è un canto di lode che incomincia con le parole degli angeli nella notte di Natale. Noi ci uniamo dunque al canto degli angeli, che cantano senza sosta la gloria di Dio e sono, in qualche modo, il modello della nostra liturgia terrena. È un inno antichissimo che è stato introdotto a poco a poco nella liturgia eucaristica. Esso comporta un aspetto solenne poiché non lo si canta che nei giorni di festa e nelle domeniche (salvo che in avvento e in quaresima).
“Cantare con entusiasmo un gloria a Dio in compagnia di altri cristiani”, scrive il padre Garneau, “non può essere che divertente e confortante. Cantare di buon cuore il gloria a Dio aiuta ad essere felici”.
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